(il trattino non è una casualità) La nostra attenzione rimane sveglia per 3 minuti. Questo è il prodotto di una società che ci spoglia di responsabilità e di capacità critica. Privati di onestà intellettuale, accettiamo notizie come prodotti impacchettati e indiscutibili. IN - FORMAZIONE nasce per grattare via i calli dal cervello, proporre la conoscenza come processo in divenire creato dalla partecipazione.
23 feb 2010
15 feb 2010
PROSTITUZIONE CIVILE
Da Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2010, di MARCO TRAVAGLIO
C’è solo una lettura più divertente delle intercettazioni: i titoli dei giornali sulle intercettazioni. Il Pompiere della Sera ha già degradato lo scandalo della Prostituzione civile a seconda notizia per dare il dovuto rilievo al sensazionale “Pensioni, allarme di Berlusconi”. Il Giornale invece apre su Bertolaso: “Intercettazioni tutte da interpretare”, “solite trappole”, “nuova stagione di fango”.
“Su Bertolaso – spiega Feltri – la sensazione è che ci sia poco o niente”: mica come sull’omosessualità di Boffo, per dire. Trattasi di “gossip”, argomenta l’autorevole Meluzzi, portavoce di don Gelmini imputato per molestie su ragazzini. Sempre sul Geniale, Annamaria Bernardini de Pace si raccomanda: “Non chiamatele escort, ma prostitute”, “sono puttane che si offrono ai potenti”: non poteva dirlo all’altro utilizzatore finale?
Secondo Belpietro, “non ci fosse stato Bertolaso, i terremotati de L’Aquila sarebbero ancora nelle tende o nei container”. Invece sono in albergo e L’Aquila, dieci mesi dopo, è in macerie come il giorno del terremoto. In compenso alla Maddalena han buttato 330 milioni per alberghi a 5 stelle con vista sui tir.
Il Foglio affida un commento a un esperto del ramo: Sergio Soave, l’ex dirigente Pds che patteggiò la pena per le mazzette sul metrò milanese, dunque può autorevolmente analizzare le nuove mazzette: “Come si può passare col rosso suonando il clacson quando si trasporta un ferito all’ospedale, così si debbono poter infrangere regole ordinarie quando si fronteggia una situazione straordinaria”.
Infatti gli appalti riguardano il G8, i Mondiali di Nuoto e i 150 anni dell’Unità d’Italia, tutte situazioni straordinarie, eventi imprevedibili scoperti per caso all’ultimo momento. Immaginiamo il panico quando, in una delle tante notti insonni al centro benessere “Beauty Salaria”, San Guido Vergine e Martire fu avvertito da una fisioterapista di mezza età, tale Francesca, lontana discendente della contessa di Castiglione e di Costantino Nigra, che nel 1861 era nata l’Italia unita. Panico, allarme rosso, stato di emergenza, poi l’Uomo del Fareallertò prontamente il genio pontieri e i cani da valanga, infine chiamò il prode Anemone, che peraltro aspettava da ore fuori dalla porta, all’addiaccio, li mortacci sua.
Decisamente più sapido l’altro editoriale del Foglio, dal titolo in chiaroscuro ispirato dal cardinal Ruini: “Chiudere la patta”. Sul Riformatorio si produce Polito El Drito in persona: ha compulsato per ore “i brogliacci delle telefonate e i commenti del gip in cerca del reato”. E, tanto per cambiare, non ci ha capito una mazza: manca – scrive con notevole ironia involontaria – “la pistola fumante”. Anzi gli è parso che la celebre Francesca “non potrebbe far escludere la cura di un’ernia del disco”. Poi vaticina che il processo finirà in prescrizione, così “non sapremo mai se Bertolaso ha fatto le terribili cose di cui è accusato” e “se gli appalti della Protezione civile finivano tutti ai personaggi che sghignazzavano alla notizia del sisma de L’Aquila e se la Maddalena è stato un colossale sperpero” perché non avremo “una sentenza definitiva”. Invece di fare un paio di visure camerali o di mandare qualcuno alla Maddalena, lui aspetta la Cassazione. E’ fatto così: se, puta caso, vede un tizio con mascherina, passamontagna e calzamaglia nera che esce da una banca col sacco in spalla, El Drito non grida “al ladro”. Aspetta una dozzina d’anni che la sentenza passi in giudicato.
Intanto San Guido sfodera tre alibi di ferro. Il primo glielo fornisce il ministro Matteoli: “Con tutto quel che ha da fare, Bertolaso non ha tempo per farsi corrompere” (i giudici lo terranno nel dovuto conto). Il secondo lo spiega l’interessato al Corriere: “Pensate che si possa comprare con 10 mila euro uno come me? E’ umiliante”. In effetti solo uno straccione si venderebbe per così poco: bisogna aggiornare il listino prezzi. Il terzo alibi è gentilmente offerto dal Banana: “Bertolaso non si tocca”. Alla bisogna provvede, eventualmente, Francesca.
(Vignetta di Bandanax)
fonte: voglioscendere.ilcannocchiale.it
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8 feb 2010
BASTA CON LA STRUMENTALIZZAZIONE RAZZISTA DELLA VIOLENZA SULLE DONNE!
COMUNICATO STAMPA
BASTA CON LA STRUMENTALIZZAZIONE RAZZISTA DELLA VIOLENZA SULLE DONNE!
BASTA CON LA GUERRA TRA POVERI!
La fiaccolata di venerdì 22 gennaio organizzata dalla Lega Nord e appoggiata dal PdL si è svolta al grido della consueta e demagogica parola d’ordine di “sicurezza”. Sicurezza, naturalmente, dalle orde di migranti che, secondo gli organizzatori, riverserebbero ondate di criminalità nel centro storico cittadino, in particolar modo a danno delle donne (la cui assenza spiccava tuttavia alla già poco partecipata fiaccolata…).
Ancora una volta la destra modenese fa leva, per le sue campagne razziste, su pregiudizi duri a morire e su dati fasulli e seminatori di odio:
Lega e PdL dichiarano che gli stranieri residenti nel centro storico distruggono vie “un tempo signorili”: lo sanno costoro che è proprio in famiglia, tra le pareti delle case di queste vie signorili che si consuma ben il 94% delle violenze contro le donne, in primo luogo da parte di italianissimi mariti e fidanzati? E sanno che tra i mariti che picchiano, violentano e uccidono le donne la prima categoria professionale rappresentata è quella degli imprenditori, dei dirigenti e dei liberi professionisti, seguita dai rappresentanti delle cosiddette forze dell’ordine e delle forze armate? Alla faccia di chi invoca più polizia per combattere la violenza sulle donne! Sanno infine che i dati ufficiali della questura (pubblicati anche dai giornali locali!) rilevano un calo generale della micro-criminalità a Modena, mentre sono in aumento esponenziale i reati dei colletti bianchi legati all’infiltrazione mafiosa e camorristica nel nostro territorio?
Dove sono le fiaccole della Lega e del PdL contro questo genere di reati? A chi fa comodo spostare altrove l’attenzione, diffondendo la paura, criminalizzando le fasce deboli come i migranti, e facendone un capro espiatorio contro cui riversare l’odio della gente, frustrata e impoverita dalla crisi economica?
Le donne di Rifondazione Comunista sono stanche che la violenza contro le donne sia strumentalizzata per fomentare campagne razziste contro gli immigrati. Anche noi chiediamo sicurezza, ma la sicurezza di una casa, di un posto di lavoro e sul posto di lavoro (tre lavoratori ogni giorno in Italia sono vittime di incidenti gravi o mortali). Anche noi combattiamo la violenza contro le donne: essa tuttavia non è fatta solo di stupri, ma di sfruttamento, di salari inferiori a quelli maschili, di mansioni dequalificanti, di assenza di servizi che fa ricadere sulle donne tutto il peso delle cure parentali, della criminalizzazione del Vaticano nei confronti delle donne che abortiscono, e, non ultima, della mercificazione del corpo femminile intrinseca alla società capitalistica, che fa delle donne un oggetto su cui riversare la violenza della società.
La crisi economica in atto non farà altro che acuire l’insicurezza e la precarietà; anche a Modena i licenziamenti e gli sfratti per morosità continuano ad aumentare. Apriamo gli occhi: è questa la sicurezza che ci aspetta? Le esibizioni della Lega sono solo un diversivo, i nostri nemici non sono gli immigrati, ma un sistema economico che sfrutta in nome degli interesse di pochi le masse, dividendole con la guerra tra poveri!
COLLETTIVO DONNE DI RIFONDAZIONE COMUNISTA
MODENA
BASTA CON LA STRUMENTALIZZAZIONE RAZZISTA DELLA VIOLENZA SULLE DONNE!
BASTA CON LA GUERRA TRA POVERI!
La fiaccolata di venerdì 22 gennaio organizzata dalla Lega Nord e appoggiata dal PdL si è svolta al grido della consueta e demagogica parola d’ordine di “sicurezza”. Sicurezza, naturalmente, dalle orde di migranti che, secondo gli organizzatori, riverserebbero ondate di criminalità nel centro storico cittadino, in particolar modo a danno delle donne (la cui assenza spiccava tuttavia alla già poco partecipata fiaccolata…).
Ancora una volta la destra modenese fa leva, per le sue campagne razziste, su pregiudizi duri a morire e su dati fasulli e seminatori di odio:
Lega e PdL dichiarano che gli stranieri residenti nel centro storico distruggono vie “un tempo signorili”: lo sanno costoro che è proprio in famiglia, tra le pareti delle case di queste vie signorili che si consuma ben il 94% delle violenze contro le donne, in primo luogo da parte di italianissimi mariti e fidanzati? E sanno che tra i mariti che picchiano, violentano e uccidono le donne la prima categoria professionale rappresentata è quella degli imprenditori, dei dirigenti e dei liberi professionisti, seguita dai rappresentanti delle cosiddette forze dell’ordine e delle forze armate? Alla faccia di chi invoca più polizia per combattere la violenza sulle donne! Sanno infine che i dati ufficiali della questura (pubblicati anche dai giornali locali!) rilevano un calo generale della micro-criminalità a Modena, mentre sono in aumento esponenziale i reati dei colletti bianchi legati all’infiltrazione mafiosa e camorristica nel nostro territorio?
Dove sono le fiaccole della Lega e del PdL contro questo genere di reati? A chi fa comodo spostare altrove l’attenzione, diffondendo la paura, criminalizzando le fasce deboli come i migranti, e facendone un capro espiatorio contro cui riversare l’odio della gente, frustrata e impoverita dalla crisi economica?
Le donne di Rifondazione Comunista sono stanche che la violenza contro le donne sia strumentalizzata per fomentare campagne razziste contro gli immigrati. Anche noi chiediamo sicurezza, ma la sicurezza di una casa, di un posto di lavoro e sul posto di lavoro (tre lavoratori ogni giorno in Italia sono vittime di incidenti gravi o mortali). Anche noi combattiamo la violenza contro le donne: essa tuttavia non è fatta solo di stupri, ma di sfruttamento, di salari inferiori a quelli maschili, di mansioni dequalificanti, di assenza di servizi che fa ricadere sulle donne tutto il peso delle cure parentali, della criminalizzazione del Vaticano nei confronti delle donne che abortiscono, e, non ultima, della mercificazione del corpo femminile intrinseca alla società capitalistica, che fa delle donne un oggetto su cui riversare la violenza della società.
La crisi economica in atto non farà altro che acuire l’insicurezza e la precarietà; anche a Modena i licenziamenti e gli sfratti per morosità continuano ad aumentare. Apriamo gli occhi: è questa la sicurezza che ci aspetta? Le esibizioni della Lega sono solo un diversivo, i nostri nemici non sono gli immigrati, ma un sistema economico che sfrutta in nome degli interesse di pochi le masse, dividendole con la guerra tra poveri!
COLLETTIVO DONNE DI RIFONDAZIONE COMUNISTA
MODENA
7 feb 2010
l'emergenza dell'oliva dal martini
Bertolaso SpA: il business della Protezione Civile.
25 gennaio 2010 2 Commenti
Bertolaso sale trionfalmente al soglio di imperatore di tutti gli appalti con il decreto legge, varato la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri e adesso in discussione al Senato, che “privatizza” la Protezione civile della nazione trasformandola in una Spa. Altro che la gerarchia dei ministri stilata ufficialmente dal suo mentore Gianni Letta.
Guido Bertolaso, dottore in medicina, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e capo del Dipartimento della Protezione civile, scala di fatto l´ordine protocollare superando in termini di potere reale non solo Frattini, Maroni e Alfano, i primi tre nella classifica lettiana, ma anche Giulio Tremonti, custode dei cordoni della borsa. Perché potrà spendere come vuole un numero imprecisato di miliardi di euro pubblici senza alcun controllo, autorizzazione o rendiconto e, se occorre, con la secretazione, come è avvenuto per il G8 che avrebbe dovuto svolgersi all’isola della Maddalena e fu infine trasferito all’Aquila terremotata.
Potrà spendere ad libitum Bertolaso, non solo per frane, incendi e terremoti, ma per qualunque “Grande evento” sia giudicato degno, nei confini della Repubblica e nell’orbe terracqueo, di un “decreto emergenziale”.
I ministeri tacciano sotto il tallone di Tremonti e la Corte dei Conti si metta l´animo in pace. I controlli sono off limits.
Già soprannominata “Bertolaso Spa” tra i senatori di tutte le parti che stanno esaminando il decreto, la “Protezione civile servizi Spa” diventa di fatto se non il più grande, certamente il più autonomo ente appaltatore della Repubblica, con una quasi totale deroga alle tradizionali norme di legge per i fondi in transito da palazzo Chigi e destinati ai più svariati scopi: dalle gare ciclistiche, alla celebrazione di santi, dai party di Stato ai viaggi del Papa, dalle piscine alle discariche, dal traffico delle gondole in laguna alle regate, dagli alberghi di lusso agli scenari di cartapesta per i vertici internazionali. Come quello – tripudio del kitsch curato da Berlusconi in persona – che fece sorridere i ministri convenuti per il vertice Nato-Russia di Pratica di Mare. Per spingersi prossimamente alla gestione dell’Expò di Milano del 2015 e alle Olimpiadi del 2020 contese tra Roma e Venezia, che Berlusconi e Letta vogliono nelle mani di Bertolaso.
Una macchina di potere così travolgente da spostare ulteriormente dalle sedi dei ministeri e naturalmente del Parlamento e delle Autorità di controllo fino a palazzo Chigi la barra del potere reale della ditta Berlusconi & Bertolaso, che sotto l´ala nobile del Gentiluomo di Sua Santità Gianni Letta, della cultura dell’emergenza ha fatto una scienza di potere infinitamente più sofisticata rispetto a quella della prima repubblica, che prevedeva complesse “cupole” per la spartizione di favori, potere e ricchezze, magari attraverso i titoli in cui erano convertiti i fondi neri dell’Iri, di cui il sottosegretario Letta ha diretta conoscenza, avendone riscossa a suo tempo una quota pari a circa un miliardo e mezzo di lire.
Sbaglierebbe chi credesse che l’emergenza della “Bertolaso Spa” si sostanzi soltanto nei terremoti, nelle frane, nelle esondazioni, negli incendi, che pure ogni anno non ci fanno mancare niente.
Tutto è ormai emergenza in questo paese: dal quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Copertino, celebrato in provincia di Lecce con l´ordinanza “emergenziale” 3356, al congresso eucaristico nazionale, previsto ad Ancona dal 4 all’11 settembre 2011, di cui Bertolaso è già commissario, per ora con una dote di soli 200 mila euro da spendere per la buona riuscita dell’evento. Spiccioli, bazzeccole, pinzillacchere. Ben altri sono gli interessi che sotto la voce “Protezione civile” fanno fluire centinaia e centinaia di milioni. Spesso agli amici e agli amici degli amici.
Tra il 2001, quando Bertolaso venne nominato capo della Protezione civile e i primi cinque mesi del 2009, la presidenza del Consiglio ha emesso 587 “ordinanze emergenziali”, di cui solo una parte riferita a calamità naturali. Il resto a “Grandi eventi”, o presunti tali. Pare che nessun organo di controllo sia in grado al momento di sapere esattamente quanto la coppia “B&B” è riuscita a spendere negli ultimi anni, senza alcuna pastoia o controllo di legittimità. Ma ha prodotto una stima attendibile Manuele Bonaccorsi, autore di un dossier intitolato “Potere assoluto – La protezione civile ai tempi di Bertolaso”, appena pubblicato.
Tra il 3 dicembre 2001 e il 30 gennaio 2006 la presidenza del Consiglio ha varato 330 ordinanze. Di queste, sono pubblici gli stanziamenti di 75 ordinanze, che valgono circa un miliardo e 490 mila euro. Non si tratta di un campione rappresentativo, ma è un dato che consente una stima. Nei cinque anni, tramite ordinanze della Protezione civile, in spregio alle norme sugli appalti e le assunzioni, sarebbero stati spesi 6,5 miliardi. Se si fa il calcolo su 587 ordinanze della presidenza del Consiglio in meno di nove anni, si arriva a 10,6 miliardi. Una somma sufficiente – giudicano gli autori del dossier – a costruire un blocco di potere indistruttibile, segreto e libero da qualsiasi regola.
Capite allora perché l´imperatore di tutti gli appalti, che il centrosinistra considerava uno dei suoi, dichiara nelle interviste che tra tutti i quattordici governi in cui ha «servito», il Berlusconi quater è «il migliore»?
Figlio di un pilota dell’aeronautica militare, medico nel Terzo mondo stipendiato dalla Farnesina e pars magna a Roma di una società immobiliare operante nel comprensorio dell’Olgiata, gran giocatore di golf con il suocero Guido Piermarini, campione del generone romano, da giovane medico l’idolo di Guido Bertolaso era il medico dei derelitti Albert Schweitzer. Poi, al seguito di Giulio Andreotti, l´aspirante medico dei derelitti scoprì che era meglio curare i potenti della terra che i diseredati.
Dieci anni fa era ancora nessuno.
«Io lo conoscevo bene», racconta Luigi Zanda, oggi vicepresidente dei senatori del Pd, che nel 2000, quando era presidente dell’Agenzia del Gran Giubileo, lo incontrò come vice di Francesco Rutelli, sindaco di Roma e commissario all’evento. «Abile nella soluzione dei problemi, aveva un ego smisurato», secondo Zanda, che oggi guida in Parlamento le legioni degli oppositori alla “Bertolaso Spa”, che, oltre alla Cgil, allinea per ora la Conferenza delle Regioni, presieduta da Vasco Errani, e l´Associazione dei comuni di Sergio Chiamparino.
Oltre a uno schieramento bipartisan che non ne può più della ditta “B&B”, covata dietro le quinte da Gianni Letta e dal suo sistema di potere, curato da ambasciatori che, a suo tempo, figurarono come reclutatori della Loggia P2 di Licio Gelli, impegnata soprattutto a riciclare tangenti con la complicità della banca del Vaticano. Come il mitico Luigi Bisignani, che oggi, ufficialmente manager di una società tipografica torinese, in realtà svolge per conto di Letta le funzioni di portavoce dei potentissimi sottosegretariati di palazzo Chigi. “B&B”, più la “L” di Letta.
«Quella cui assistiamo – dice Zanda – è una picconata allo Stato, una sovrapposizione abnorme tra un capo Dipartimento, un direttore generale che dovrebbe ispirarsi all’imparzialità, e un sottosegretario controllore-controllato, cui, per di più, col nuovo decreto, si implementano i poteri. Nella repubblica democratica italiana non è mai accaduto che un membro del governo abbia avuto contemporaneamente la carica di sottosegretario e di direttore generale. È come se il ministro dell’Interno Maroni fosse anche il capo delle polizia. Per la serie: continuiamo a picconare questo ex Stato di diritto».
Legibus solutus, anche a causa del caratteraccio arrogante e litigioso nonostante il Premio Santa Caterina da Siena appena ricevuto, il pio Bertolaso rischia col suo sistema di potere di incappare in quei piccoli granelli che, se sottovalutati, possono inceppare il meccanismo. Tra le centinaia di delibere emergenziali passate negli anni passati del suo potere da palazzo Chigi, destinate a moltiplicarsi con il decollo del decreto “B&B”, ce n’è qualcuna che proprio non può passare indenne a qualche sacrosanta verifica giudiziaria.
A parte l´inchiesta “Rompiballe”, che coinvolge Bertolaso nelle vicenda del discutibile riciclaggio dei rifiuti napoletani, fiore all’occhiello del berlusconismo, vogliamo magari parlare degli appalti secretati per il G8 della Maddalena, confluiti in una piccola società di Grottaferrata, Castelli Romani, di nome Anemone, come il suo titolare, personaggio riconducibile ai cari del commissario bertolasiano Angelo Balducci? O dei venti inutili poli natatori sorti a Roma ad uso dei soliti palazzinari, facendo carta straccia dei piani regolatori, per i Mondiali di nuoto del 2009?
Quella volta fu un figlio del Balducci, oggi stimato presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, a tentare il business milionario su un territorio prossimo alla via Salaria che rischia di affogare sotto il Tevere ogni volta che fa due gocce d´acqua.
Tanto era sfrontata la speculazione del giovane Balducci, che qualche magistrato proprio non la digerì. Ora la “Protezione Civile Spa” della premiata ditta “B&B”, punta con tanti amici costruttori a luoghi secchi e desertici. E soprattutto, liberata con la privatizzazione dagli ultimi lacci dei controlli, a nessuna interferenza di giudici rossi.
Fonte: La Repubblica, Wikipedia
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riordino scolastico
COMMENTO | di Domenico Chiesa
SCUOLE SUPERIORI
Adolescenti «no future»
I regolamenti di riordino delle scuole superiori, approvati ieri dal Consiglio dei Ministri, non hanno certo la portata di una riforma ma ugualmente produrranno per la scuola un forte impatto: in un tempo di crisi economica, sociale, culturale, che scardina lo stesso concetto di sviluppo, proporre la stabilizzazione dell'assetto di scuola in vigore come fosse un'innovazione epocale non potrà non avere ricadute negative sul futuro della formazione. Nella scuola disegnata dal Governo si mantengono rivitalizzate le categorie gentiliane dell'istruzione segnata dagli aggettivi che l'accompagnano («liceale», «tecnica» e «professionale»).
Il biennio perde ogni legame con la scuola di base e con lo sviluppo delle competenze culturali tanto conclamate. Il danno è profondo perché diventa impossibile ridisegnare il curricolo verticale sui dieci anni di obbligo. La coerenza del curricolo verticale poteva rappresentare il livello più fecondo per un'innovazione in grado di migliorare i risultati di apprendimento.
La direzione verso cui si muove questa «riforma» è la sostanziale riproposizione/aggiornamento della scuola nata con la riforma del 1923 che prevede un percorso per formare il ceto dirigente, uno per i tecnici intermedi e un percorso per le attività esecutive-qualificate che ora entrerà in concorrenza con i percorsi di formazione professionale e magari con l'apprendistato a 15 anni.
Si conferma e approfondisce il solco tra licei e istituti e all'interno di questi tra tecnici e professionali.
È una scelta sbagliata perché si basa su due presupposti non più veri e perché esiste un'alternativa meno ideologica, maggiormente fattibile e maggiormente vicina alla prospettiva di una scuola democratica.
Il primo presupposto si riferisce all'esistenza di «vocazioni» allo studio legate a diverse forme di intelligenza. Con un eccesso di banalizzazione, approssimazione e superficialità si parla di vocazioni, di attitudini, di forme di intelligenza in una età così incerta in cui il rendimento scolastico e soprattutto il comportamento culturale sono sostanzialmente determinati dalle condizioni sociali e dalle esperienze culturali vissute. Nella preadolescenza l'«intelligenza» non è un dato stabile ormai solo più da assecondare bensì un elemento composito su cui costruire lo sviluppo delle competenze culturali. È l'intelligenza di ciascuno che semmai è ricca di tante intelligenze tutte da espandere; lo sviluppo degli aspetti intellettivi in cui si eccelle non può avvenire abbandonando quelli in cui si rilevano difficoltà. A questa età è molto importante uno sviluppo armonico della nostra intelligenza e sappiamo quanto la formazione culturale sia determinante.
Il secondo presupposto è riferibile al mercato del lavoro. Siamo da tanti anni martellati dalla richiesta di flessibilità: non esiste più un lavoro che possa durare per tutta la vita. Cosa cambia dovendo formare profili professionali caratterizzati contemporaneamente da un'alta specializzazione e da una rapida trasformazione e instabilità?
Certo non anticipando il momento della specializzazione: la precocità della formazione specialistica e settoriale caratterizzava i profili professionali rigidi e tali da coprire l'intero periodo della vita lavorativa.
Crescono le competenze trasversali e le abilità comunicative e di comprensione/interazione all'interno di situazioni complesse e in forte, continua evoluzione.
Proprio la nuova tipologia della specializzazione legata alle nuove tecnologie e il suo bisogno di flessibilità sono compatibili unicamente con una base di formazione di ampio e consolidato respiro culturale che solo ad un certo momento si orienti e si pieghi verso lo specifico settore professionale.
In realtà, quando non si hanno idee e competenze per costruire futuro, la paura, prodotta da un presente difficile, produce il ripiegamento in un passato nostalgico.
Il futuro della scuola sarà dunque segnato nella qualità dai tagli alle risorse (secondo una strana teoria che prevede un miglioramento dei risultati attraverso la riduzione dell'investimento) e da una non-riforma (un cambiamento senza progetto) che rassetterà l'esistente cercando di farlo rivivere nello spirito della scuola formato anni cinquanta. Che peccato.
ilmanifesto
SCUOLE SUPERIORI
Adolescenti «no future»
I regolamenti di riordino delle scuole superiori, approvati ieri dal Consiglio dei Ministri, non hanno certo la portata di una riforma ma ugualmente produrranno per la scuola un forte impatto: in un tempo di crisi economica, sociale, culturale, che scardina lo stesso concetto di sviluppo, proporre la stabilizzazione dell'assetto di scuola in vigore come fosse un'innovazione epocale non potrà non avere ricadute negative sul futuro della formazione. Nella scuola disegnata dal Governo si mantengono rivitalizzate le categorie gentiliane dell'istruzione segnata dagli aggettivi che l'accompagnano («liceale», «tecnica» e «professionale»).
Il biennio perde ogni legame con la scuola di base e con lo sviluppo delle competenze culturali tanto conclamate. Il danno è profondo perché diventa impossibile ridisegnare il curricolo verticale sui dieci anni di obbligo. La coerenza del curricolo verticale poteva rappresentare il livello più fecondo per un'innovazione in grado di migliorare i risultati di apprendimento.
La direzione verso cui si muove questa «riforma» è la sostanziale riproposizione/aggiornamento della scuola nata con la riforma del 1923 che prevede un percorso per formare il ceto dirigente, uno per i tecnici intermedi e un percorso per le attività esecutive-qualificate che ora entrerà in concorrenza con i percorsi di formazione professionale e magari con l'apprendistato a 15 anni.
Si conferma e approfondisce il solco tra licei e istituti e all'interno di questi tra tecnici e professionali.
È una scelta sbagliata perché si basa su due presupposti non più veri e perché esiste un'alternativa meno ideologica, maggiormente fattibile e maggiormente vicina alla prospettiva di una scuola democratica.
Il primo presupposto si riferisce all'esistenza di «vocazioni» allo studio legate a diverse forme di intelligenza. Con un eccesso di banalizzazione, approssimazione e superficialità si parla di vocazioni, di attitudini, di forme di intelligenza in una età così incerta in cui il rendimento scolastico e soprattutto il comportamento culturale sono sostanzialmente determinati dalle condizioni sociali e dalle esperienze culturali vissute. Nella preadolescenza l'«intelligenza» non è un dato stabile ormai solo più da assecondare bensì un elemento composito su cui costruire lo sviluppo delle competenze culturali. È l'intelligenza di ciascuno che semmai è ricca di tante intelligenze tutte da espandere; lo sviluppo degli aspetti intellettivi in cui si eccelle non può avvenire abbandonando quelli in cui si rilevano difficoltà. A questa età è molto importante uno sviluppo armonico della nostra intelligenza e sappiamo quanto la formazione culturale sia determinante.
Il secondo presupposto è riferibile al mercato del lavoro. Siamo da tanti anni martellati dalla richiesta di flessibilità: non esiste più un lavoro che possa durare per tutta la vita. Cosa cambia dovendo formare profili professionali caratterizzati contemporaneamente da un'alta specializzazione e da una rapida trasformazione e instabilità?
Certo non anticipando il momento della specializzazione: la precocità della formazione specialistica e settoriale caratterizzava i profili professionali rigidi e tali da coprire l'intero periodo della vita lavorativa.
Crescono le competenze trasversali e le abilità comunicative e di comprensione/interazione all'interno di situazioni complesse e in forte, continua evoluzione.
Proprio la nuova tipologia della specializzazione legata alle nuove tecnologie e il suo bisogno di flessibilità sono compatibili unicamente con una base di formazione di ampio e consolidato respiro culturale che solo ad un certo momento si orienti e si pieghi verso lo specifico settore professionale.
In realtà, quando non si hanno idee e competenze per costruire futuro, la paura, prodotta da un presente difficile, produce il ripiegamento in un passato nostalgico.
Il futuro della scuola sarà dunque segnato nella qualità dai tagli alle risorse (secondo una strana teoria che prevede un miglioramento dei risultati attraverso la riduzione dell'investimento) e da una non-riforma (un cambiamento senza progetto) che rassetterà l'esistente cercando di farlo rivivere nello spirito della scuola formato anni cinquanta. Che peccato.
ilmanifesto
ingiustizia sociale
COMMENTO | di Marco Revelli
INGIUSTIZIA SOCIALE
Povertà in tuta blu
«Rancore».
Loris Campetti, sulla prima pagina del manifesto del 29 gennaio, ha evocato la parola chiave per capire molte cose dell'Italia di oggi. Anzi, sotto il significativo titolo «La politica non sale sui tetti», ha usato un'espressione ancor più impronunciabile: «rancore operaio». Lo so che la cosa non piacerà quasi a nessuno, né alla destra né alla sinistra, a cominciare da tanti operaisti in stand by. Ma ci apre la porta alla comprensione di molti aspetti della nostra contemporaneità opaca, altrimenti indecifrabili. Dell'imbarbarimento civile del nord, tanto per cominciare, del nordest con i suoi sindaci xenofobi, ma anche del nordovest, l'antico triangolo industriale, ieri tradizionale area d'insediamento sociale della sinistra «lavorista» oggi territorio di conquista della Lega. Del degrado camorristico-mafioso di gran parte del sud, e del disfacimento morale assolutamente bipartisan di quasi tutta la sua classe dirigente. Della stessa evaporazione rapida della sinistra nazionale, fino al punto dell'afasia e dell'atrofia politica attuale. E dell'apparentemente inspiegabile assenza di conflitti sociali, collettivi, pur in una situazione in cui la crisi morde sul vivo.
Il rancore è un sentimento «sociale». È una passione «da poveri». Da chi è messo all'angolo. Alimenta, appunto, le «guerre tra poveri»: i conflitti orizzontali sul fondo della piramide sociale. E gli operai italiani sono, oggi, poveri. Anzi - cosa forse ancor peggiore - sono degli «impoveriti». Basta dare un'occhiata alle statistiche, che non piacciono al governo, ma ne spiegano con la loro crudezza la fortuna elettorale, per comprenderlo. La più recente rilevazione disponibile - il Rapporto della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale - ci dice che l'incidenza della povertà relativa tra le famiglie operaie aveva raggiunto, nel 2008 (quando dunque la crisi era appena all'inizio) il livello record del 14,5%, che al sud sale addirittura al 20,7%. Il che significa che qui una famiglia su cinque, il cui capofamiglia sia operaio, è costretta a vivere con una spesa mensile media inferiore di almeno la metà rispetto a quella nazionale.
Se poi dalla «povertà relativa» si passa all'indicatore di «povertà assoluta» - il quale misura il numero di coloro che non possono permettersi neppure una quantità minima di beni e servizi giudicati indispensabili per una vita dignitosa: cibo, vestiario, medicine, trasporti -, le cose vanno persino peggio. Dall'analisi «per gruppi» condotta dall'Istat sul milione e duecentomila famiglie italiane censite come «assolutamente povere», al fine di individuarne la composizione, risulta che quasi la metà di esse è costituita da lavoratori - in prevalenza dipendenti, ma non solo - o comunque da famiglie in cui la «persona di riferimento» svolge un lavoro. Si tratta, per un buon numero (170.000 famiglie, pari al 15,1% del totale) di «coppie monoreddito operaie con figli minori residenti nel Mezzogiorno» e per un'altra elevata percentuale (più dell'11%, oltre 124.000 famiglie) di «single e monogenitori operai del centronord»! Ma vi compaiono anche 110.000 famiglie composte da «coppie monoreddito di lavoratori in proprio con figli minori» (il 9,8%) e quasi altrettante (93.000, l'8,3% del totale) con capofamiglia impiegato o persino piccolo imprenditore, con un elevato numero di figli minori a carico e residenza al sud. A cui va aggiunta la massa, certamente più consistente, delle povertà occulte: di chi non è censibile «ufficialmente» come povero, in base all'entità formale del reddito o del consumo, ma di fatto lo è perché appesantito dalle rate del mutuo o del credito al consumo, da una separazione, un divorzio, una terapia relativamente costosa. O semplicemente da uno stile di vita diventato economicamente incompatibile col proprio bilancio ma socialmente irrinunciabile, pena la perdita delle relazioni primarie.
Sono, tutte, figure sociali che fino a pochi anni fa si consideravano «garantite». Che venivano viste socialmente - e si vedevano, soggettivamente - al di sopra e al di fuori del rischio-povertà. Per le quali l'orizzonte sociale era stato, a lungo, quello della crescita, di reddito e di status. E che ora si scoprono, quasi d'improvviso, su un piano inclinato. Misurano sulla propria possibilità di accesso a beni e servizi essenziali, una «caduta» che stentano ad ammettere. E che si sforzano di mascherare. Ma che viene per molti versi da lontano. E che ha a che fare - anche se è difficile, per chi la subisce, decifrarla così - con la pesante, silenziosa ma nella sostanza destabilizzante, sconfitta politica e sociale che il lavoro ha subito nell'ultimo scorcio del secolo scorso. Non solo in Italia, certo. Ma in Italia in forma particolarmente severa.
Basta dare un'occhiata alla dinamica salariale, per avere immediatamente la misura dello spostamento di potere sociale verificatosi nel periodo. L'Ocse ci colloca oggi al 23° posto nella classifica annuale delle retribuzioni nei suoi trenta paesi aderenti, davanti soltanto a Repubblica Ceca, Ungheria, Messico, Nuova Zelanda, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Turchia. I salari lordi italiani sono in media sotto del 16% rispetto all'area Ocse e del 32% rispetto all'area Euro. Quelli netti, a causa dell'elevato peso degli oneri fiscali, ancor peggio: secondo l'Eurispes «il lavoratore italiano percepisce un compenso salariale che è inferiore del 44% rispetto al dipendente inglese, del 32% a quello irlandese, il 28% in meno di un tedesco». Sempre secondo questa fonte percepirebbe addirittura, in busta paga, il 19% in meno di un greco, e il 14% di uno spagnolo. Certo è che se si tiene conto che la testa della classifica, per salario netto, è occupata dalla Corea con 39.931 dollari annui, seguita dal Regno Unito con 38.147 e dalla Svizzera con 36.000, il lavoratore italiano con i suoi 21.374 dollari (circa 15.300 euro) appare davvero un paria.
Non era così fino agli anni Novanta, quando la remunerazione del lavoro in Italia stava 5 o 6 punti sopra la media europea. Dietro ai numeri, dunque, e al loro declino verso il basso, si nasconde un contemporaneo spostamento laterale, dal centro alla periferia, dal protagonismo al silenzio, degli uomini che dietro a quei numeri stanno. Di quel mondo del lavoro di cui si era celebrata la «centralità» nella fase matura del Novecento, e di cui è andato in scena l'oscuramento nel passaggio di secolo. Sono loro che hanno perso. Uno studio della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) calcola in numerosi punti percentuali di Pil la quota di ricchezza sociale passata dal monte salari ai profitti delle imprese tra l'inizio degli anni '80 e il 2005 nei paesi sviluppati. Per l'Italia si tratta di ben 8 punti: una cifra enorme, pari all'incirca a 120 miliardi di euro, 7.000 euro per ognuno dei 17 milioni di lavoratori dipendenti. La misura di un processo silenzioso ma brutale di emarginazione.
Stupisce che ora chi fino a meno di una generazione fa era considerato e si considerava al centro dell'universo sociale e ora non viene neppure più «visto» (a meno che non esponga il proprio corpo e la propria vita su un tetto o una gru), né «nominato» da quella stessa sinistra che sulla retorica operaia aveva costruito la propria fortuna politica, nutra rancore? Che provi anche un suo particolare gusto nell'abbandono degli antichi compagni? Un'ostentazione di wildness. Un perverso uso del politicamente scorretto, quando il mito dell'«assalto a cielo» cade nel fango, e rimane ormai solo il trash del rito celtico padano, e l'urlo gutturale della ronda leghista, a marcare un brandello di soggettività? O il rassegnato abbandono al patronnage di un padrino di camorra, in una cintura flegrea? O, infine, il sogno perverso dell'uscita verticale attraverso il cubo di un night e un ripostiglio del Grande fratello?
INGIUSTIZIA SOCIALE
Povertà in tuta blu
«Rancore».
Loris Campetti, sulla prima pagina del manifesto del 29 gennaio, ha evocato la parola chiave per capire molte cose dell'Italia di oggi. Anzi, sotto il significativo titolo «La politica non sale sui tetti», ha usato un'espressione ancor più impronunciabile: «rancore operaio». Lo so che la cosa non piacerà quasi a nessuno, né alla destra né alla sinistra, a cominciare da tanti operaisti in stand by. Ma ci apre la porta alla comprensione di molti aspetti della nostra contemporaneità opaca, altrimenti indecifrabili. Dell'imbarbarimento civile del nord, tanto per cominciare, del nordest con i suoi sindaci xenofobi, ma anche del nordovest, l'antico triangolo industriale, ieri tradizionale area d'insediamento sociale della sinistra «lavorista» oggi territorio di conquista della Lega. Del degrado camorristico-mafioso di gran parte del sud, e del disfacimento morale assolutamente bipartisan di quasi tutta la sua classe dirigente. Della stessa evaporazione rapida della sinistra nazionale, fino al punto dell'afasia e dell'atrofia politica attuale. E dell'apparentemente inspiegabile assenza di conflitti sociali, collettivi, pur in una situazione in cui la crisi morde sul vivo.
Il rancore è un sentimento «sociale». È una passione «da poveri». Da chi è messo all'angolo. Alimenta, appunto, le «guerre tra poveri»: i conflitti orizzontali sul fondo della piramide sociale. E gli operai italiani sono, oggi, poveri. Anzi - cosa forse ancor peggiore - sono degli «impoveriti». Basta dare un'occhiata alle statistiche, che non piacciono al governo, ma ne spiegano con la loro crudezza la fortuna elettorale, per comprenderlo. La più recente rilevazione disponibile - il Rapporto della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale - ci dice che l'incidenza della povertà relativa tra le famiglie operaie aveva raggiunto, nel 2008 (quando dunque la crisi era appena all'inizio) il livello record del 14,5%, che al sud sale addirittura al 20,7%. Il che significa che qui una famiglia su cinque, il cui capofamiglia sia operaio, è costretta a vivere con una spesa mensile media inferiore di almeno la metà rispetto a quella nazionale.
Se poi dalla «povertà relativa» si passa all'indicatore di «povertà assoluta» - il quale misura il numero di coloro che non possono permettersi neppure una quantità minima di beni e servizi giudicati indispensabili per una vita dignitosa: cibo, vestiario, medicine, trasporti -, le cose vanno persino peggio. Dall'analisi «per gruppi» condotta dall'Istat sul milione e duecentomila famiglie italiane censite come «assolutamente povere», al fine di individuarne la composizione, risulta che quasi la metà di esse è costituita da lavoratori - in prevalenza dipendenti, ma non solo - o comunque da famiglie in cui la «persona di riferimento» svolge un lavoro. Si tratta, per un buon numero (170.000 famiglie, pari al 15,1% del totale) di «coppie monoreddito operaie con figli minori residenti nel Mezzogiorno» e per un'altra elevata percentuale (più dell'11%, oltre 124.000 famiglie) di «single e monogenitori operai del centronord»! Ma vi compaiono anche 110.000 famiglie composte da «coppie monoreddito di lavoratori in proprio con figli minori» (il 9,8%) e quasi altrettante (93.000, l'8,3% del totale) con capofamiglia impiegato o persino piccolo imprenditore, con un elevato numero di figli minori a carico e residenza al sud. A cui va aggiunta la massa, certamente più consistente, delle povertà occulte: di chi non è censibile «ufficialmente» come povero, in base all'entità formale del reddito o del consumo, ma di fatto lo è perché appesantito dalle rate del mutuo o del credito al consumo, da una separazione, un divorzio, una terapia relativamente costosa. O semplicemente da uno stile di vita diventato economicamente incompatibile col proprio bilancio ma socialmente irrinunciabile, pena la perdita delle relazioni primarie.
Sono, tutte, figure sociali che fino a pochi anni fa si consideravano «garantite». Che venivano viste socialmente - e si vedevano, soggettivamente - al di sopra e al di fuori del rischio-povertà. Per le quali l'orizzonte sociale era stato, a lungo, quello della crescita, di reddito e di status. E che ora si scoprono, quasi d'improvviso, su un piano inclinato. Misurano sulla propria possibilità di accesso a beni e servizi essenziali, una «caduta» che stentano ad ammettere. E che si sforzano di mascherare. Ma che viene per molti versi da lontano. E che ha a che fare - anche se è difficile, per chi la subisce, decifrarla così - con la pesante, silenziosa ma nella sostanza destabilizzante, sconfitta politica e sociale che il lavoro ha subito nell'ultimo scorcio del secolo scorso. Non solo in Italia, certo. Ma in Italia in forma particolarmente severa.
Basta dare un'occhiata alla dinamica salariale, per avere immediatamente la misura dello spostamento di potere sociale verificatosi nel periodo. L'Ocse ci colloca oggi al 23° posto nella classifica annuale delle retribuzioni nei suoi trenta paesi aderenti, davanti soltanto a Repubblica Ceca, Ungheria, Messico, Nuova Zelanda, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Turchia. I salari lordi italiani sono in media sotto del 16% rispetto all'area Ocse e del 32% rispetto all'area Euro. Quelli netti, a causa dell'elevato peso degli oneri fiscali, ancor peggio: secondo l'Eurispes «il lavoratore italiano percepisce un compenso salariale che è inferiore del 44% rispetto al dipendente inglese, del 32% a quello irlandese, il 28% in meno di un tedesco». Sempre secondo questa fonte percepirebbe addirittura, in busta paga, il 19% in meno di un greco, e il 14% di uno spagnolo. Certo è che se si tiene conto che la testa della classifica, per salario netto, è occupata dalla Corea con 39.931 dollari annui, seguita dal Regno Unito con 38.147 e dalla Svizzera con 36.000, il lavoratore italiano con i suoi 21.374 dollari (circa 15.300 euro) appare davvero un paria.
Non era così fino agli anni Novanta, quando la remunerazione del lavoro in Italia stava 5 o 6 punti sopra la media europea. Dietro ai numeri, dunque, e al loro declino verso il basso, si nasconde un contemporaneo spostamento laterale, dal centro alla periferia, dal protagonismo al silenzio, degli uomini che dietro a quei numeri stanno. Di quel mondo del lavoro di cui si era celebrata la «centralità» nella fase matura del Novecento, e di cui è andato in scena l'oscuramento nel passaggio di secolo. Sono loro che hanno perso. Uno studio della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) calcola in numerosi punti percentuali di Pil la quota di ricchezza sociale passata dal monte salari ai profitti delle imprese tra l'inizio degli anni '80 e il 2005 nei paesi sviluppati. Per l'Italia si tratta di ben 8 punti: una cifra enorme, pari all'incirca a 120 miliardi di euro, 7.000 euro per ognuno dei 17 milioni di lavoratori dipendenti. La misura di un processo silenzioso ma brutale di emarginazione.
Stupisce che ora chi fino a meno di una generazione fa era considerato e si considerava al centro dell'universo sociale e ora non viene neppure più «visto» (a meno che non esponga il proprio corpo e la propria vita su un tetto o una gru), né «nominato» da quella stessa sinistra che sulla retorica operaia aveva costruito la propria fortuna politica, nutra rancore? Che provi anche un suo particolare gusto nell'abbandono degli antichi compagni? Un'ostentazione di wildness. Un perverso uso del politicamente scorretto, quando il mito dell'«assalto a cielo» cade nel fango, e rimane ormai solo il trash del rito celtico padano, e l'urlo gutturale della ronda leghista, a marcare un brandello di soggettività? O il rassegnato abbandono al patronnage di un padrino di camorra, in una cintura flegrea? O, infine, il sogno perverso dell'uscita verticale attraverso il cubo di un night e un ripostiglio del Grande fratello?
zingonia
FUORIPAGINA06/02/2010 | Andrea Palladino
Sembra Rosarno È Zingonia
Sono 1231 i chilometri che dividono Rosarno dalla provincia di Bergamo. Una linea che una volta era percorsa dai migranti del meridione d’Italia, accolti oltre il Po dai cartelli «non si affitta ai terroni». Per loro, per i volti mediterranei di Rocco e i suoi fratelli, per quelle lingue aspirate che odoravano di mare e di terre abbandonate, c’era chi costruiva case e interi quartieri dedicati, pensati solo per accogliere i migranti. Lontani dai centri delle città, in quella periferia fatta di palazzoni allineati. Serviva la mano d’opera per la lingua di terra tra Bergamo, Brescia e Milano. Ne serviva tanta, subito e a basso costo.
È nata così Zingonia, enorme speculazione un po’ surreale alle porte di Bergamo. Le fabbriche, le villette per i dirigenti e, a pochi metri dalla strada statale che fa da confine con il borgo antico di Ciserano, sei torri per loro, i meridionali.
In cinquantanni tutto è cambiato, per non cambiare nulla. Tra gli anziani della bassa bergamasca anche le polacche che fanno le badanti vengono chiamate ancora oggi terrune. L’africano che lavora in fabbrica è solo un niger, e nei bar con la bandiera della Lega non si fa vedere. Nella bassa regno dei duri fedeli
di Maroni, di Borghezio e di Bossi, c’è oggi la crisi. Dall’aeroplano diretto a Orio al Serio si possono contare le poche automobili stazionate davanti ai capannoni industriali, facendo una statistica molto empirica ma visivamente efficace. Parcheggi deserti, pochissimi camion, capannoni chiusi. Passa la crisi vera, quella industriale, quella cattiva, quel vento che lascia le persone a casa. Quel male che ha portato un operaio a suicidarsi, a darsi fuoco davanti ad uno dei tanti piazzali vuoti, grigi e inutili.
E così anche Zingonia deve cambiare. I niger e «le facce da cammello» - come il neopresidente leghista della provincia di Bergamo amava chiamare i magrebini - devono andare via. Il quartiere simbolo dell’industrializzazione costruito da Renzo Zingone nel 1964 - prima vera speculazione edilizia del nord Italia - è ormai da buttare giù. Come a Rosarno è da ripulire, estirpare, cacciandola
dalle mappe.
L’arma dell’acqua
I sei palazzi di Zingonia sono oggi abitati da 150 famiglie, tutte o quasi composte da migranti stranieri. Prevalgono i senegalesi, i pachistani e i magrebini. Non sono case popolari, gestite da enti o dal comune. Chi è entrato nei palazzi di Zingonia paga un affitto o, molto spesso, ha comprato gli appartamenti dai precedenti inquilini italiani. Cacciare via tutti, come vuole la Lega, è dunque un problema. Il 3 dicembre scorso la mattina un gruppo di tecnici della Bas - azienda di gestione dell’acqua controllata da A2A - taglia i tubi dell’acqua, facendo scoppiare una rivolta di alcune ore. La società si era presentata con un conto salatissimo di quasi 400 mila euro di bollette non pagate. Ma non tutto è in realtà così chiaro.
Facendo due conti, in uno dei sei palazzi risulta un consumo idrico per l’ultimo anno di quasi novecento euro a famiglia. È evidente quindi che i conti non tornano. A fine dicembre le famiglie di Zingonia hanno raccolto tredicimila euro, consegnati al sindaco di Ciserano, che a sua volta li ha versati all’azienda controllata da A2A. Un primo acconto che ha permesso la riapertura dei rubinetti. Ai signorotti bergamaschi dell’acqua però non è bastato: i quattrocento mila euro di arretrati li vogliono tutti.
Divide et impera
«Abbiamo un accordo», ha annunciato a fine anno Enea Biagini, il sindaco ex Ppi - oggi Pd - di Ciserano. Un patto firmato da lui, da A2A e da rappresentanti dei condomini scelti sul campo, senza una regolare assemblea di condominio. Anzi, il condominio da anni non c’è più, dopo che l’ultimo amministratore si è dimesso. L’accordo prevede che ogni famiglia delle torri di Zingonia versi 125 euro, tutti i mesi. In un anno sono 1500 euro, per l’acqua di A2A. La raccolta dei soldi è affidata dall’improvvisato capo condominio, che ogni mese deve girare tra gli otto piani del palazzo chiedendo alle famiglie senza lavoro o in cassa integrazione quei soldi. Basta che qualcuno non paghi e a fine mese l’acqua viene tagliata di nuovo, all’intero palazzo. Così è successo all’inizio di questa settimana ad un condominio. E così probabilmente tra qualche giorno accadrà per un’altra torre di Zingonia.
Dopo la protesta dura del 3 dicembre il taglio dell’acqua anche qui avviene con la copertura di forze armate. A differenza di Aprilia - dove le ronde di Acqualatina sono accompagnate dai vigilantes privati - l’ordine pubblico è garantito dagli alpini, dai carabinieri e dalla polizia locale. E se tagliano l’acqua diventa più facile dare la colpa a quelle famiglie che non sono riuscite a mettere i 125 euro mensili, dividendo così la comunità degli stranieri.
Via tutti
L’esodo è così iniziato. Chi può, chi trova un’altra casa, chi non ha un mutuo da pagare ha già lasciato Zingonia. Perché rimanere, d’altra parte: quelle torri dovranno essere abbattute, per far spazio all’economia speculativa che del lavoro se ne frega. I caterpillar e l’esplosivo per buttare giù i palazzi creati per i migranti del sud Italia nel 1964 sono già pronti, nascosti dietro i presidi fascisti della Lega. Sul sito esecuzionigiudiziarie.it ci sono oggi undici appartamenti di Zingonia all’asta. Famiglie di stranieri che non sono riuscite a pagare il mutuo e che hanno perso la casa. Il valore è precipitato sotto i 50 mila euro. In alcuni
casi un appartamento è offerto all’asta a 18 mila euro, con una valutazione della perizia di 48 mila euro. E anche qui, come per il calcolo delle bollette dell’acqua del 2009, c’è qualcosa che non torna. Tutte le perizie, tranne una, mettono nero su bianco che nei palazzi di Zingonia non ci sono debiti di condominio o di acqua. «L’amministratore non si trova», spiegano i periti e, dunque, nessuno sa quali siano i reali debiti. E dato che il contatore è sempre stato condominiale, è impossibile oggi per le famiglie di Zingonia stabilire con certezza se i conti presentati da A2A sono corretti.
Analizzando poi le storie giudiziarie degli undici appartamenti che andranno
all’asta si scopre anche il mercato clandestino degli affitti in nero. E qui gli italiani entrano in scena. C’è il caso ad esempio di un appartamento di proprietà di un italiano, dove gli ufficiali giudiziari hanno trovato una famiglia di stranieri. «Abbiamo un contratto d’affitto», hanno risposto, mostrando un accordo mai registrato. «A chi pagate?», ha chiesto il perito del Tribunale: «A un
tale Massimo, che raccoglie i soldi tutti i mesi, perché il padrone di casa non lo abbiamo mai visto», è stata la risposta. Inutile parlare con Massimo, ovviamente, perché dove sia finito il padrone non lo ha voluto dire neanche ai periti del Tribunale. Gli appartamenti vuoti sono stati poi murati dal Comune di Ciserano, per evitare che altre famiglie potessero entrare. Fino ad oggi sono stati chiusi 22 appartamenti e di questi almeno tre erano di proprietà di italiani,
ma utilizzati da famiglie di stranieri, spesso irregolari.
Oggi con la scure del taglio dell’acqua - dopo che già da cinque anni è stato tagliato il riscaldamento - buona parte delle famiglie vorrebbe andarsene. Il problema rimane per chi è in regola con il pagamento dei mutui - e non sono pochi - per chi in quell’appartamento ha visto la possibilità di un riscatto, di una vita normale, di un futuro per i figli. Tanti sono qui da anni, riescono a mantenere un lavoro, magari precario, magari al nero. Mandano i figli nelle scuole, dove - nonostante Gelmini e la Lega - fanno amicizia, studiano, hanno insegnanti che conoscono. È contro queste famiglie che l’arma del debito dell’acqua è oggi usata: rimanere con i rubinetti a secco ed essere costretti a
usare le fontanelle dei cortili, in pieno inverno e con gli ascensori rotti è
la “exit strategy”. Perché su Zingonia si prepara un futuro milionario.
Le mani su Zingonia
In nome della sicurezza da queste parti si fa di tutto. Ed è una sicurezza asimmetrica, dove al sicuro si devono mettere solo i capitali. Le famiglie, la casa ed il lavoro si possono buttar via. «Zingonia è un ghetto». «Zingonia è il regno dello spaccio». «A Zingonia è meglio non entrare». Da un anno il martellamento
mediatico è intenso. E così quando è stato presentato il nuovo contratto di quartiere per la zona tutti erano felici. I sei palazzi venivano buttati giù, la zona veniva destinata allo sviluppo del commercio e i privati potevano investire. Nella versione presentata pubblicamente del progetto c’era anche la realizzazione
delle nuove case per le famiglie che abitano le sei torri, i condomini Athena e Anna: accanto alla speculazione c’era un minimo di criterio di vero sviluppo sociale.
«Io ho preso possesso l’8 giugno - racconta il sindaco di Ciserano Biagini - e il 10 la regione mi ha chiesto tutti i progetti preliminari, pena il respingimento
del contratto di quartiere ». Impossibile ovviamente riuscire a mandare la documentazione. E così il progetto della nuova Zingonia con un volto più umano è caduto, cassato dalla Regione Lombardia.
Arrivano le elezioni provinciali, la Lega che sulla cacciata degli stranieri di Zingonia aveva fatto la sua principale battaglia, si aggiudica il posto di presidente. A ottobre parte la nuova proposta dalla Regione: il progetto va rimodulato - spiegano in una riunione a porte chiuse - vi diamo 5 milioni di euro per espropriare tutto e le terre le assegniamo con «bandi ad hoc». Sparisce tutto lo studio sociale ed economico, rimane solo la speculazione. Passa un mese ed ecco che la A2A inizia a tagliare l’acqua e a chiedere cifre impossibili alle famiglie. Una fortuita coincidenza, ovviamente. Zingonia probabilmente morirà. Le 150 famiglie verranno espulse, mandate via come è accaduto a Rosarno. Ma per la Lega potrebbe essere una battaglia solo apparentemente
vinta. «Vedi, gli italiani non conoscono il mondo neanche su internet - racconta un ragazzo marocchino davanti ai palazzi di Zingonia - e questo paese senza di noi morirà». In un lento e tragico suicidio.
ilmanifesto
Sembra Rosarno È Zingonia
Sono 1231 i chilometri che dividono Rosarno dalla provincia di Bergamo. Una linea che una volta era percorsa dai migranti del meridione d’Italia, accolti oltre il Po dai cartelli «non si affitta ai terroni». Per loro, per i volti mediterranei di Rocco e i suoi fratelli, per quelle lingue aspirate che odoravano di mare e di terre abbandonate, c’era chi costruiva case e interi quartieri dedicati, pensati solo per accogliere i migranti. Lontani dai centri delle città, in quella periferia fatta di palazzoni allineati. Serviva la mano d’opera per la lingua di terra tra Bergamo, Brescia e Milano. Ne serviva tanta, subito e a basso costo.
È nata così Zingonia, enorme speculazione un po’ surreale alle porte di Bergamo. Le fabbriche, le villette per i dirigenti e, a pochi metri dalla strada statale che fa da confine con il borgo antico di Ciserano, sei torri per loro, i meridionali.
In cinquantanni tutto è cambiato, per non cambiare nulla. Tra gli anziani della bassa bergamasca anche le polacche che fanno le badanti vengono chiamate ancora oggi terrune. L’africano che lavora in fabbrica è solo un niger, e nei bar con la bandiera della Lega non si fa vedere. Nella bassa regno dei duri fedeli
di Maroni, di Borghezio e di Bossi, c’è oggi la crisi. Dall’aeroplano diretto a Orio al Serio si possono contare le poche automobili stazionate davanti ai capannoni industriali, facendo una statistica molto empirica ma visivamente efficace. Parcheggi deserti, pochissimi camion, capannoni chiusi. Passa la crisi vera, quella industriale, quella cattiva, quel vento che lascia le persone a casa. Quel male che ha portato un operaio a suicidarsi, a darsi fuoco davanti ad uno dei tanti piazzali vuoti, grigi e inutili.
E così anche Zingonia deve cambiare. I niger e «le facce da cammello» - come il neopresidente leghista della provincia di Bergamo amava chiamare i magrebini - devono andare via. Il quartiere simbolo dell’industrializzazione costruito da Renzo Zingone nel 1964 - prima vera speculazione edilizia del nord Italia - è ormai da buttare giù. Come a Rosarno è da ripulire, estirpare, cacciandola
dalle mappe.
L’arma dell’acqua
I sei palazzi di Zingonia sono oggi abitati da 150 famiglie, tutte o quasi composte da migranti stranieri. Prevalgono i senegalesi, i pachistani e i magrebini. Non sono case popolari, gestite da enti o dal comune. Chi è entrato nei palazzi di Zingonia paga un affitto o, molto spesso, ha comprato gli appartamenti dai precedenti inquilini italiani. Cacciare via tutti, come vuole la Lega, è dunque un problema. Il 3 dicembre scorso la mattina un gruppo di tecnici della Bas - azienda di gestione dell’acqua controllata da A2A - taglia i tubi dell’acqua, facendo scoppiare una rivolta di alcune ore. La società si era presentata con un conto salatissimo di quasi 400 mila euro di bollette non pagate. Ma non tutto è in realtà così chiaro.
Facendo due conti, in uno dei sei palazzi risulta un consumo idrico per l’ultimo anno di quasi novecento euro a famiglia. È evidente quindi che i conti non tornano. A fine dicembre le famiglie di Zingonia hanno raccolto tredicimila euro, consegnati al sindaco di Ciserano, che a sua volta li ha versati all’azienda controllata da A2A. Un primo acconto che ha permesso la riapertura dei rubinetti. Ai signorotti bergamaschi dell’acqua però non è bastato: i quattrocento mila euro di arretrati li vogliono tutti.
Divide et impera
«Abbiamo un accordo», ha annunciato a fine anno Enea Biagini, il sindaco ex Ppi - oggi Pd - di Ciserano. Un patto firmato da lui, da A2A e da rappresentanti dei condomini scelti sul campo, senza una regolare assemblea di condominio. Anzi, il condominio da anni non c’è più, dopo che l’ultimo amministratore si è dimesso. L’accordo prevede che ogni famiglia delle torri di Zingonia versi 125 euro, tutti i mesi. In un anno sono 1500 euro, per l’acqua di A2A. La raccolta dei soldi è affidata dall’improvvisato capo condominio, che ogni mese deve girare tra gli otto piani del palazzo chiedendo alle famiglie senza lavoro o in cassa integrazione quei soldi. Basta che qualcuno non paghi e a fine mese l’acqua viene tagliata di nuovo, all’intero palazzo. Così è successo all’inizio di questa settimana ad un condominio. E così probabilmente tra qualche giorno accadrà per un’altra torre di Zingonia.
Dopo la protesta dura del 3 dicembre il taglio dell’acqua anche qui avviene con la copertura di forze armate. A differenza di Aprilia - dove le ronde di Acqualatina sono accompagnate dai vigilantes privati - l’ordine pubblico è garantito dagli alpini, dai carabinieri e dalla polizia locale. E se tagliano l’acqua diventa più facile dare la colpa a quelle famiglie che non sono riuscite a mettere i 125 euro mensili, dividendo così la comunità degli stranieri.
Via tutti
L’esodo è così iniziato. Chi può, chi trova un’altra casa, chi non ha un mutuo da pagare ha già lasciato Zingonia. Perché rimanere, d’altra parte: quelle torri dovranno essere abbattute, per far spazio all’economia speculativa che del lavoro se ne frega. I caterpillar e l’esplosivo per buttare giù i palazzi creati per i migranti del sud Italia nel 1964 sono già pronti, nascosti dietro i presidi fascisti della Lega. Sul sito esecuzionigiudiziarie.it ci sono oggi undici appartamenti di Zingonia all’asta. Famiglie di stranieri che non sono riuscite a pagare il mutuo e che hanno perso la casa. Il valore è precipitato sotto i 50 mila euro. In alcuni
casi un appartamento è offerto all’asta a 18 mila euro, con una valutazione della perizia di 48 mila euro. E anche qui, come per il calcolo delle bollette dell’acqua del 2009, c’è qualcosa che non torna. Tutte le perizie, tranne una, mettono nero su bianco che nei palazzi di Zingonia non ci sono debiti di condominio o di acqua. «L’amministratore non si trova», spiegano i periti e, dunque, nessuno sa quali siano i reali debiti. E dato che il contatore è sempre stato condominiale, è impossibile oggi per le famiglie di Zingonia stabilire con certezza se i conti presentati da A2A sono corretti.
Analizzando poi le storie giudiziarie degli undici appartamenti che andranno
all’asta si scopre anche il mercato clandestino degli affitti in nero. E qui gli italiani entrano in scena. C’è il caso ad esempio di un appartamento di proprietà di un italiano, dove gli ufficiali giudiziari hanno trovato una famiglia di stranieri. «Abbiamo un contratto d’affitto», hanno risposto, mostrando un accordo mai registrato. «A chi pagate?», ha chiesto il perito del Tribunale: «A un
tale Massimo, che raccoglie i soldi tutti i mesi, perché il padrone di casa non lo abbiamo mai visto», è stata la risposta. Inutile parlare con Massimo, ovviamente, perché dove sia finito il padrone non lo ha voluto dire neanche ai periti del Tribunale. Gli appartamenti vuoti sono stati poi murati dal Comune di Ciserano, per evitare che altre famiglie potessero entrare. Fino ad oggi sono stati chiusi 22 appartamenti e di questi almeno tre erano di proprietà di italiani,
ma utilizzati da famiglie di stranieri, spesso irregolari.
Oggi con la scure del taglio dell’acqua - dopo che già da cinque anni è stato tagliato il riscaldamento - buona parte delle famiglie vorrebbe andarsene. Il problema rimane per chi è in regola con il pagamento dei mutui - e non sono pochi - per chi in quell’appartamento ha visto la possibilità di un riscatto, di una vita normale, di un futuro per i figli. Tanti sono qui da anni, riescono a mantenere un lavoro, magari precario, magari al nero. Mandano i figli nelle scuole, dove - nonostante Gelmini e la Lega - fanno amicizia, studiano, hanno insegnanti che conoscono. È contro queste famiglie che l’arma del debito dell’acqua è oggi usata: rimanere con i rubinetti a secco ed essere costretti a
usare le fontanelle dei cortili, in pieno inverno e con gli ascensori rotti è
la “exit strategy”. Perché su Zingonia si prepara un futuro milionario.
Le mani su Zingonia
In nome della sicurezza da queste parti si fa di tutto. Ed è una sicurezza asimmetrica, dove al sicuro si devono mettere solo i capitali. Le famiglie, la casa ed il lavoro si possono buttar via. «Zingonia è un ghetto». «Zingonia è il regno dello spaccio». «A Zingonia è meglio non entrare». Da un anno il martellamento
mediatico è intenso. E così quando è stato presentato il nuovo contratto di quartiere per la zona tutti erano felici. I sei palazzi venivano buttati giù, la zona veniva destinata allo sviluppo del commercio e i privati potevano investire. Nella versione presentata pubblicamente del progetto c’era anche la realizzazione
delle nuove case per le famiglie che abitano le sei torri, i condomini Athena e Anna: accanto alla speculazione c’era un minimo di criterio di vero sviluppo sociale.
«Io ho preso possesso l’8 giugno - racconta il sindaco di Ciserano Biagini - e il 10 la regione mi ha chiesto tutti i progetti preliminari, pena il respingimento
del contratto di quartiere ». Impossibile ovviamente riuscire a mandare la documentazione. E così il progetto della nuova Zingonia con un volto più umano è caduto, cassato dalla Regione Lombardia.
Arrivano le elezioni provinciali, la Lega che sulla cacciata degli stranieri di Zingonia aveva fatto la sua principale battaglia, si aggiudica il posto di presidente. A ottobre parte la nuova proposta dalla Regione: il progetto va rimodulato - spiegano in una riunione a porte chiuse - vi diamo 5 milioni di euro per espropriare tutto e le terre le assegniamo con «bandi ad hoc». Sparisce tutto lo studio sociale ed economico, rimane solo la speculazione. Passa un mese ed ecco che la A2A inizia a tagliare l’acqua e a chiedere cifre impossibili alle famiglie. Una fortuita coincidenza, ovviamente. Zingonia probabilmente morirà. Le 150 famiglie verranno espulse, mandate via come è accaduto a Rosarno. Ma per la Lega potrebbe essere una battaglia solo apparentemente
vinta. «Vedi, gli italiani non conoscono il mondo neanche su internet - racconta un ragazzo marocchino davanti ai palazzi di Zingonia - e questo paese senza di noi morirà». In un lento e tragico suicidio.
ilmanifesto
5 feb 2010
Caso Franco Mastrogiovanni: Reparto Psichiatria Vallo – Il giudice: era una corsia lager
Caso Franco Mastrogiovanni: Reparto Psichiatria Vallo – Il giudice: era una corsia lager
«Basti pensare solo al dolore che deve aver cagionato alla vittima il continuo strofinio delle fasce di contenzione sulla ferita che aveva al polso sinistro, profonda fino alla carne viva». L’ordinanza del gip di Vallo della Lucania, Nicola Morrone, è spietata quanto le accuse che la Procura muove ai 14 operatori sanitari indagati per sequestro di persona, morte o lesioni. L’immagine di Francesco Mastrogiovanni che viene fuori sia dalle riprese filmate della videocamera dell’ospedale che dal provvedimento giudiziario è quella di «un uomo sofferente e in palese difficoltà respiratoria», morto sì per edema polmonare, come risulta dalla cartella clinica sequestrata, ma «connesso allo stato di forzata immobilità al quale era costretto». L’immagine, invece, che viene fuori del reparto di psichiatria dell’ospedale San Luca assomiglia a un campo di concentramento dove «è prassi trattare così i pazienti». La figura dei medici, infine, viene quasi sconsacrata: «le condotte abusive erano poste in essere confidando nella difficoltà di disagio sociale dei pazienti e nella possibilità di invocare una loro scarsa credibilità, perché affetti da malattie psichiatriche». Invece, i filmati parlano chiaro. Mastrogiovanni, così come un altro paziente G. M, sarebbe stato legato al letto per tutto il periodo di degenza «anche se non aggressivo. Né veniva alimentato o fatto bere». Per il gip, Mastrogiovanni non rifiutava il cibo, né le cure mediche, né tantomeno le iniezioni, come invece verbalizzato nella cartella clinica dell’ospedale. La magistratura ricostruisce gli ultimi giorni di vita dell’insegnante. Alle 12.15 del primo agosto, Mastrogiovanni arriva in ospedale con l’ambulanza e adagiato sul letto del reparto. «Fino alle 12.41 è cosciente, non appare aggressivo — si legge nell’ordinanza di sospensione di medici e infermieri — e alle 12.45 si sottopone a trattamento dei sanitari facendosi iniettare una siringa intramuscolo. Alle 12.55 è così tranquillo che si prepara da solo il letto e mangia il cibo fornito dall’ospedale. E’ l’ultima volta che gli sarà consentito di alimentarsi, poiché alle 13.08 si adagia sul letto e rimane tranquillo fino al momento in cui gli saranno applicate le fasce di contenzione. Da quel momento non sarà più slegato, né gli saranno forniti acqua e cibo, e ciò fino al momento della sua morte». In una «sconcertante sequela di abusi» conclude il gip.
Angela Cappetta da Cilento notizie
«Basti pensare solo al dolore che deve aver cagionato alla vittima il continuo strofinio delle fasce di contenzione sulla ferita che aveva al polso sinistro, profonda fino alla carne viva». L’ordinanza del gip di Vallo della Lucania, Nicola Morrone, è spietata quanto le accuse che la Procura muove ai 14 operatori sanitari indagati per sequestro di persona, morte o lesioni. L’immagine di Francesco Mastrogiovanni che viene fuori sia dalle riprese filmate della videocamera dell’ospedale che dal provvedimento giudiziario è quella di «un uomo sofferente e in palese difficoltà respiratoria», morto sì per edema polmonare, come risulta dalla cartella clinica sequestrata, ma «connesso allo stato di forzata immobilità al quale era costretto». L’immagine, invece, che viene fuori del reparto di psichiatria dell’ospedale San Luca assomiglia a un campo di concentramento dove «è prassi trattare così i pazienti». La figura dei medici, infine, viene quasi sconsacrata: «le condotte abusive erano poste in essere confidando nella difficoltà di disagio sociale dei pazienti e nella possibilità di invocare una loro scarsa credibilità, perché affetti da malattie psichiatriche». Invece, i filmati parlano chiaro. Mastrogiovanni, così come un altro paziente G. M, sarebbe stato legato al letto per tutto il periodo di degenza «anche se non aggressivo. Né veniva alimentato o fatto bere». Per il gip, Mastrogiovanni non rifiutava il cibo, né le cure mediche, né tantomeno le iniezioni, come invece verbalizzato nella cartella clinica dell’ospedale. La magistratura ricostruisce gli ultimi giorni di vita dell’insegnante. Alle 12.15 del primo agosto, Mastrogiovanni arriva in ospedale con l’ambulanza e adagiato sul letto del reparto. «Fino alle 12.41 è cosciente, non appare aggressivo — si legge nell’ordinanza di sospensione di medici e infermieri — e alle 12.45 si sottopone a trattamento dei sanitari facendosi iniettare una siringa intramuscolo. Alle 12.55 è così tranquillo che si prepara da solo il letto e mangia il cibo fornito dall’ospedale. E’ l’ultima volta che gli sarà consentito di alimentarsi, poiché alle 13.08 si adagia sul letto e rimane tranquillo fino al momento in cui gli saranno applicate le fasce di contenzione. Da quel momento non sarà più slegato, né gli saranno forniti acqua e cibo, e ciò fino al momento della sua morte». In una «sconcertante sequela di abusi» conclude il gip.
Angela Cappetta da Cilento notizie
Il Cavaliere, il Vaticano e la congiura contro Boffo di GIUSEPPE D'AVANZO
IL COMMENTO
Il Cavaliere, il Vaticano
e la congiura contro Boffo
di GIUSEPPE D'AVANZO
C'E' STATO, dunque, dentro le gerarchie di Santa Romana Chiesa una cospirazione. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, muove contro la Conferenza Episcopale Italiana di Angelo Bagnasco. Francesco Cossiga - con l'occhio lungo di chi è abituato a vedere nel sottofondo dei poteri - rivela le ragioni per tempo. Il presidente emerito della Repubblica, adeguatamente informato, anticipa tutti, quasi disegna nel minuto ciò che accadrà presto, le teste che cadranno, le forze in campo, la posta politica in gioco. Berlusconi è sotto tiro. Ci si è cacciato da solo, in un angolo, festeggiando una minorenne. La sua vita sconveniente piace poco o punto alle parrocchie e ai parroci, che non tacciono imbarazzo e amarezza in lettere all'Avvenire. Il monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, ascolta quelle voci e lamenta: "Assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati; soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio" (6 luglio, Ferriera di Latina).
Cossiga prende di petto il segretario della Cei: "Si è passato il segno. Altro che "festini e libertinaggio": sarebbe bastata una dichiarazione sull'etica, riferita alla situazione generale, come si è sempre fatto". Insistere su questi temi, ragiona Cossiga, svela "una spaccatura che riguarda la politica, non l'etica". Ecco la scena che egli vede: "Vogliono tenersi buona una parte dell'episcopato e del movimento ecclesiale, vicino al centro-sinistra. Hanno puntato sul Pd di Franceschini, tirano la volata all'unico leader post-dc rimasto. Se il direttore dell'Avvenire vanta che, all'interno del suo giornale, ognuno decide liberamente a chi devolvere l'8 per mille, siamo in presenza di un gruppo in dissidenza non con il centro-destra, ma potenzialmente con la parte della Chiesa che fa capo al Papa". Cossiga è brutale con il direttore dell'Avvenire: "Non riesco a dare nessuna spiegazione agli scritti del non reverendo Boffo che, posto inopportunamente alla direzione del giornale pur sempre organo ufficiale della Cei, dovrebbe astenersi da questi continui attacchi, dovuti in parte alle sue note preferenze politiche, ammantate da scelte religiose" (il Giornale, 24 agosto).
* * *
Le parole di Francesco Cossiga raccontano a chi ha orecchie per intendere (1) perché il giornale del capo del governo colpisce qualche giorno dopo Dino Boffo; (2) per chi suona la campana della sua character assassination; (3) chi deve trarre vantaggio dallo scandalo che è già in cottura. Berlusconi è in bilico, pericolosamente fragile. Lo rendono vulnerabile le sue abitudini. Lo indeboliscono i comportamenti privati. Ancor più lo debilitano le reazioni paralizzate che oscillano dalla menzogna pubblica a un silenzio impotente, screditandolo sulla scena internazionale e tra il suo elettorato. Lo segnalano i sondaggi. I consiglieri politici che gli sono accanto comprendono che, se anche i vescovi italiani gli muoveranno pubblicamente contro - come lascia credere l'intervento del segretario della Cei - il capo del governo sarà fritto, la sua stagione politica arriverà a un triste capolinea.
In questo campo di tensioni politiche, religiose e linee di forza, più schiettamente, di potere, il direttore dell'Avvenire Dino Boffo diventa il magnete che attrae l'intero spettro delle reazioni alla situazione critica; l'obiettivo contro cui si scarica il desiderio della Curia romana di regolare i conti con un episcopato reso troppo autonomo dalle politiche di Camillo Ruini; la volontà del segretario di Stato Tarcisio Bertone di sostenere il periclitante Silvio Berlusconi e di riprendere nelle sue mani la guida della Chiesa italiana; la determinazione del Cavaliere ad aggredire "colpo su colpo", chiunque - familiare, alleato, oppositore, editore, giornalista - gli si pari davanti, critico. Scannare Dino Boffo, come sempre accade al capro espiatorio, è una lucidissima necessità terapeutica. È un esercizio che aggira le contraddizioni che non si riescono a risolvere (può una Chiesa che chiede "pudore, sobrietà, autocontrollo" affidarsi a un "libertino irresponsabile"?). È la manovra che consente di rinviare la soluzione del problema (possono i cattolici italiani guardare con fiducia e rispetto a Berlusconi?). È la mossa che può liquidare dal proscenio un "uomo-istituzione", per di più laico, cui i gerarchi ecclesiali, con il rancore di molti, hanno affidato il governo dell'intero media-system cattolico, l'Avvenire, Sat 2000, la televisione sulla quale la Cei riversa importanti risorse, InBlu, il network radiofonico di ben 200 radio. Sul capo di Dino Boffo si precipitano un odio e un risentimento assoluti. Si intravedono molte mani al lavoro e sempre le loro mosse sono intenzionali.
* * *
Sulla scena appaiono ora i congiurati. Sono stati chiamati in causa, in questi giorni. Bisogna dirne il nome e il cognome. Sono il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Il direttore dell'Osservatore romano, Gian Maria Vian. Le informazioni distruttive si possono raccogliere, fabbricare o distorcere isolando un fatto vero dal suo contesto e manipolandolo con cura. È la politica dello scandalo. Ha i suoi protocolli. Vengono rispettati anche in questo caso. Per distruggere Dino Boffo, i congiurati hanno a disposizione una muffa. La si conosce da cinque anni: una condanna penale per molestie che il direttore dell'Avvenire, per proteggere un suo assistente, ha accettato rifiutando il giudizio e l'appello. Può non bastare (è roba già vista, è aria fritta) e, dunque, grazie ai buoni uffici di un qualche spione (secondo fonti vicine a Boffo, un professore dell'Università Cattolica di Milano), "Sua Eccellenza" chiede informazioni. Le riceve. Trenta righe, precedute dalla dicitura "Riscontro a richiesta di informativa di Sua Eccellenza". Nel testo si legge la calunnia che taglierà la testa al capro espiatorio ricomponendo l'ordine compromesso: "Il Boffo è un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni e gode indubbiamente di alte protezioni, correità e coperture in sede ecclesiastica". Il veleno assassino è pronto. Ora bisogna provocare una "fuga di notizie" rimanendo fuori della mischia e lasciando che il lavoro sporco sia completato dai giornali.
* * *
L'azione intenzionale di chi, "primo ministro" (Bertone), pretende un riequilibrio di poteri che ridimensioni l'autonomia della "Chiesa nazionale italiana", perché "non ci possono essere "piccoli vaticani" sparsi nei cinque continenti" (Vittorio Messori), incrocia il disegno del presidente del Consiglio che, in estate, ha riorganizzato la sua "mischia mediatica", ha deciso di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti. Ha stilato una lista di nemici e vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi che gli appaiono incerti. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. Che il piano sia questo, lo svela Mario Giordano, costretto a lasciare la direzione del Giornale: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove" (il Giornale, 21 agosto). Giordano non poteva essere più chiaro: l'editore e premier mi ha chiesto di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.
Vittorio Feltri, il nuovo arrivato, è disposto, altro che. Scrive che "il suo fucile è carico". Gian Maria Vian lo avvicina. Gli fa consegnare il dossier manipolato, "autenticandolo". Lo rassicura: è un'iniziativa voluta dal cardinale Bertone. A delitto consumato, il segretario di Stato telefonerà a Feltri (secondo una confidenza sfuggita a Boffo con i suoi collaboratori) ringraziandolo per "aver reso un servizio alla Chiesa e al Papa". Ma non è la Chiesa che il direttore del Giornale vuole servire. Egli è al servizio del suo editore e di una nuova strategia politica che altera il giornalismo in calunnia. Una tecnica di minacciosa disinformazione che vuole terrorizzare gli avversari politici, intimorire tutti affinché chiunque smarrisca "la serenità di lavorare" e i giornalisti "la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni" (Roberto Saviano). Quando ascolta Vian, il nuovo direttore sa bene qual è la sua missione. Non si prende nemmeno la briga di dare un'occhiata a quelle carte false (falsa è la "nota informativa" che offrirà al suo pubblico come documento giudiziario). Le pubblica. È il 28 agosto del 2009.
Dopo cinque mesi la menzogna che, nel mondo meraviglioso di Silvio Berlusconi, nasconde la realtà vuole farci credere che l'"assassinio" di Dino Boffo è stato ideato e consumato soltanto nelle stanze vaticane. Dovremmo dimenticare oggi che sulla scena di quel delitto ci sono anche le impronte del Cavaliere. La character assassination del direttore di Avvenire (mai illuminata nei mandanti e nei moventi da alcun giornale) è l'esito di due azioni intenzionali che, come Cossiga ci ha spiegato in anticipo, sono state organizzate per dare "a ciascuno, il suo". A Tarcisio Bertone il governo (anche politico) dell'episcopato italiano. A Silvio Berlusconi, una via d'uscita da guai che, con l'abbandono della Chiesa, potevano travolgerne il destino. Una eccellente occasione di rappresentarsi come un potere che, nelle difficoltà, non avrebbe rinunciato a mostrare - con i dossier, l'intimidazione, di lì a poco colpiranno Napolitano, Fini, la Corte Costituzionale - la violenza pura che custodisce.
Il Cavaliere, il Vaticano
e la congiura contro Boffo
di GIUSEPPE D'AVANZO
C'E' STATO, dunque, dentro le gerarchie di Santa Romana Chiesa una cospirazione. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, muove contro la Conferenza Episcopale Italiana di Angelo Bagnasco. Francesco Cossiga - con l'occhio lungo di chi è abituato a vedere nel sottofondo dei poteri - rivela le ragioni per tempo. Il presidente emerito della Repubblica, adeguatamente informato, anticipa tutti, quasi disegna nel minuto ciò che accadrà presto, le teste che cadranno, le forze in campo, la posta politica in gioco. Berlusconi è sotto tiro. Ci si è cacciato da solo, in un angolo, festeggiando una minorenne. La sua vita sconveniente piace poco o punto alle parrocchie e ai parroci, che non tacciono imbarazzo e amarezza in lettere all'Avvenire. Il monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, ascolta quelle voci e lamenta: "Assistiamo a un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria. Nessuno deve pensare che in questo campo non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari privati; soprattutto quando sono implicati minori, cosa la cui gravità grida vendetta al cospetto di Dio" (6 luglio, Ferriera di Latina).
Cossiga prende di petto il segretario della Cei: "Si è passato il segno. Altro che "festini e libertinaggio": sarebbe bastata una dichiarazione sull'etica, riferita alla situazione generale, come si è sempre fatto". Insistere su questi temi, ragiona Cossiga, svela "una spaccatura che riguarda la politica, non l'etica". Ecco la scena che egli vede: "Vogliono tenersi buona una parte dell'episcopato e del movimento ecclesiale, vicino al centro-sinistra. Hanno puntato sul Pd di Franceschini, tirano la volata all'unico leader post-dc rimasto. Se il direttore dell'Avvenire vanta che, all'interno del suo giornale, ognuno decide liberamente a chi devolvere l'8 per mille, siamo in presenza di un gruppo in dissidenza non con il centro-destra, ma potenzialmente con la parte della Chiesa che fa capo al Papa". Cossiga è brutale con il direttore dell'Avvenire: "Non riesco a dare nessuna spiegazione agli scritti del non reverendo Boffo che, posto inopportunamente alla direzione del giornale pur sempre organo ufficiale della Cei, dovrebbe astenersi da questi continui attacchi, dovuti in parte alle sue note preferenze politiche, ammantate da scelte religiose" (il Giornale, 24 agosto).
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Le parole di Francesco Cossiga raccontano a chi ha orecchie per intendere (1) perché il giornale del capo del governo colpisce qualche giorno dopo Dino Boffo; (2) per chi suona la campana della sua character assassination; (3) chi deve trarre vantaggio dallo scandalo che è già in cottura. Berlusconi è in bilico, pericolosamente fragile. Lo rendono vulnerabile le sue abitudini. Lo indeboliscono i comportamenti privati. Ancor più lo debilitano le reazioni paralizzate che oscillano dalla menzogna pubblica a un silenzio impotente, screditandolo sulla scena internazionale e tra il suo elettorato. Lo segnalano i sondaggi. I consiglieri politici che gli sono accanto comprendono che, se anche i vescovi italiani gli muoveranno pubblicamente contro - come lascia credere l'intervento del segretario della Cei - il capo del governo sarà fritto, la sua stagione politica arriverà a un triste capolinea.
In questo campo di tensioni politiche, religiose e linee di forza, più schiettamente, di potere, il direttore dell'Avvenire Dino Boffo diventa il magnete che attrae l'intero spettro delle reazioni alla situazione critica; l'obiettivo contro cui si scarica il desiderio della Curia romana di regolare i conti con un episcopato reso troppo autonomo dalle politiche di Camillo Ruini; la volontà del segretario di Stato Tarcisio Bertone di sostenere il periclitante Silvio Berlusconi e di riprendere nelle sue mani la guida della Chiesa italiana; la determinazione del Cavaliere ad aggredire "colpo su colpo", chiunque - familiare, alleato, oppositore, editore, giornalista - gli si pari davanti, critico. Scannare Dino Boffo, come sempre accade al capro espiatorio, è una lucidissima necessità terapeutica. È un esercizio che aggira le contraddizioni che non si riescono a risolvere (può una Chiesa che chiede "pudore, sobrietà, autocontrollo" affidarsi a un "libertino irresponsabile"?). È la manovra che consente di rinviare la soluzione del problema (possono i cattolici italiani guardare con fiducia e rispetto a Berlusconi?). È la mossa che può liquidare dal proscenio un "uomo-istituzione", per di più laico, cui i gerarchi ecclesiali, con il rancore di molti, hanno affidato il governo dell'intero media-system cattolico, l'Avvenire, Sat 2000, la televisione sulla quale la Cei riversa importanti risorse, InBlu, il network radiofonico di ben 200 radio. Sul capo di Dino Boffo si precipitano un odio e un risentimento assoluti. Si intravedono molte mani al lavoro e sempre le loro mosse sono intenzionali.
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Sulla scena appaiono ora i congiurati. Sono stati chiamati in causa, in questi giorni. Bisogna dirne il nome e il cognome. Sono il segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Il direttore dell'Osservatore romano, Gian Maria Vian. Le informazioni distruttive si possono raccogliere, fabbricare o distorcere isolando un fatto vero dal suo contesto e manipolandolo con cura. È la politica dello scandalo. Ha i suoi protocolli. Vengono rispettati anche in questo caso. Per distruggere Dino Boffo, i congiurati hanno a disposizione una muffa. La si conosce da cinque anni: una condanna penale per molestie che il direttore dell'Avvenire, per proteggere un suo assistente, ha accettato rifiutando il giudizio e l'appello. Può non bastare (è roba già vista, è aria fritta) e, dunque, grazie ai buoni uffici di un qualche spione (secondo fonti vicine a Boffo, un professore dell'Università Cattolica di Milano), "Sua Eccellenza" chiede informazioni. Le riceve. Trenta righe, precedute dalla dicitura "Riscontro a richiesta di informativa di Sua Eccellenza". Nel testo si legge la calunnia che taglierà la testa al capro espiatorio ricomponendo l'ordine compromesso: "Il Boffo è un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni e gode indubbiamente di alte protezioni, correità e coperture in sede ecclesiastica". Il veleno assassino è pronto. Ora bisogna provocare una "fuga di notizie" rimanendo fuori della mischia e lasciando che il lavoro sporco sia completato dai giornali.
* * *
L'azione intenzionale di chi, "primo ministro" (Bertone), pretende un riequilibrio di poteri che ridimensioni l'autonomia della "Chiesa nazionale italiana", perché "non ci possono essere "piccoli vaticani" sparsi nei cinque continenti" (Vittorio Messori), incrocia il disegno del presidente del Consiglio che, in estate, ha riorganizzato la sua "mischia mediatica", ha deciso di muovere contro i suoi avversari, autentici e presunti. Ha stilato una lista di nemici e vuole demolirli. Licenzia quelli tra i suoi che gli appaiono incerti. Vuole sicari pronti a sporcarsi le mani. Che il piano sia questo, lo svela Mario Giordano, costretto a lasciare la direzione del Giornale: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove" (il Giornale, 21 agosto). Giordano non poteva essere più chiaro: l'editore e premier mi ha chiesto di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo.
Vittorio Feltri, il nuovo arrivato, è disposto, altro che. Scrive che "il suo fucile è carico". Gian Maria Vian lo avvicina. Gli fa consegnare il dossier manipolato, "autenticandolo". Lo rassicura: è un'iniziativa voluta dal cardinale Bertone. A delitto consumato, il segretario di Stato telefonerà a Feltri (secondo una confidenza sfuggita a Boffo con i suoi collaboratori) ringraziandolo per "aver reso un servizio alla Chiesa e al Papa". Ma non è la Chiesa che il direttore del Giornale vuole servire. Egli è al servizio del suo editore e di una nuova strategia politica che altera il giornalismo in calunnia. Una tecnica di minacciosa disinformazione che vuole terrorizzare gli avversari politici, intimorire tutti affinché chiunque smarrisca "la serenità di lavorare" e i giornalisti "la possibilità di raccontare senza doversi aspettare ritorsioni" (Roberto Saviano). Quando ascolta Vian, il nuovo direttore sa bene qual è la sua missione. Non si prende nemmeno la briga di dare un'occhiata a quelle carte false (falsa è la "nota informativa" che offrirà al suo pubblico come documento giudiziario). Le pubblica. È il 28 agosto del 2009.
Dopo cinque mesi la menzogna che, nel mondo meraviglioso di Silvio Berlusconi, nasconde la realtà vuole farci credere che l'"assassinio" di Dino Boffo è stato ideato e consumato soltanto nelle stanze vaticane. Dovremmo dimenticare oggi che sulla scena di quel delitto ci sono anche le impronte del Cavaliere. La character assassination del direttore di Avvenire (mai illuminata nei mandanti e nei moventi da alcun giornale) è l'esito di due azioni intenzionali che, come Cossiga ci ha spiegato in anticipo, sono state organizzate per dare "a ciascuno, il suo". A Tarcisio Bertone il governo (anche politico) dell'episcopato italiano. A Silvio Berlusconi, una via d'uscita da guai che, con l'abbandono della Chiesa, potevano travolgerne il destino. Una eccellente occasione di rappresentarsi come un potere che, nelle difficoltà, non avrebbe rinunciato a mostrare - con i dossier, l'intimidazione, di lì a poco colpiranno Napolitano, Fini, la Corte Costituzionale - la violenza pura che custodisce.
politiche sociali
"Strada facendo" è l'appuntamento annuale sul welfare organizzato
dal Gruppo Abele, Libera e CNCA a Terni, fino a domenica
La "tre-giorni" sulle politiche sociali:
povertà, carceri piene e lavoro nero
di CARLO CIAVONI
La "tre-giorni" sulle politiche sociali: povertà, carceri piene e lavoro nero
ROMA - Sul tavolo, il Gruppo Abele, Libera e CNCA (il Coordinamento di accoglienza) hanno già pronto il materiale sul quale si metteranno a discutere per tre giorni, a partire da questa mattina fino a domenica. L'appuntamento è al Palatennistavolo di Terni, per la quarta edizione di "Strada Facendo", l'incontro annuale che fa il punto sulle politiche sociali in Italia e prova ad immaginare nuovi modelli di welfare. Tre giorni di riflessioni con sette gruppi di lavoro, oltre 1000 iscritti e 70 relatori. Annunciata la partecipazione di personaggi della politica di prima fila: Pierluigi Bersani, Fabio Granata (finiano del Pdl), Maria Rita Lorenzetti (presidente della Regione Umbria), Nichi Vendola, Paolo Ferrero, Livia Turco... E poi giuristi, economisti, sociologi.
L'idea diffusa di un Paese ingiusto. Ci sarà tanto di cui parlare e innumerevoli saranno gli spunti sui quali riflettere e discutere. Le ricerche e i diagrammi dai quali partirà la discussione, tratteggiano spietatamente i contorni di un'Italia con la soglia della vulnerabilità sociale talmente abbassata da diffondere tra i giovani dai 16 ai 30 anni la certezza di vivere in un Paese che non garantisce a tutti gli stessi percorsi, dove le regole ci sono, ma non valgono per tutti fino in fondo. E dove solo il 10% di chi perde il lavoro è coperto da sussidi, tanto che 1,6 milioni di lavoratori non ha alcun sostegno in caso di licenziamento.
Vecchi e nuovi poveri. La Banca d'Italia ci dice che 2 milioni e 600 mila persone non sono occupate; tra questi sono calcolati anche i disoccupati ormai talmente scoraggiati che un lavoro neanche lo cercano più. La povertà assoluta riguarda il 5% della popolazione, circa 2 milioni e 900 mila persone, gente che non riesce ad acquistare beni e servizi ritenuti essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile. Non meno grave la condizione nel "recinto" della cosiddetta "povertà relativa", popolata da circa 2 milioni di persone che vive appena al di sopra della soglia: 50 euro in più dei poveri veri e propri.
La spesa sociale sotto la media UE. La "social card" di Tremonti ha avuto un impatto modesto, sia sulla povertà assoluta, che su quella relativa: un calo delle famiglie "assolutamente povere" di appena lo 0,4%. L'insieme dei provvedimenti del governo rispetto gli indigenti è di 192 milioni di euro, ma ne servirebbero 3, 86 miliardi. Fatta pari a 100 la media aritmetica della spesa pro capite dell'Europa a 15, quella italiana è diminuita progressivamente dall'84% del '97, al 77% del 2006.
Il collasso delle carceri. Nelle celle dei penitenziari italiani sono stipati 20 mila persone in più di quante ne potrebbero contenere. A questo dato oggettivo, che già da sé è all'origine di situazioni inumane e degradanti, si aggiunge anche una cultura della pena detentiva superata e inadeguata, lontanissima dall'idea del reinserimento sociale e del recupero, e sempre più viziata dal concetto di vendetta e rivalsa della società su chi ha sbagliato. Tra i dati a disposizione di chi parteciperà alla "tre-giorni" di Terni, ci sono gli esempi del carcere di Favignana, piccola struttura con 148 detenuti, con la particolarità di essere totalmente sotto terra. E l'esempio, agghiacciante e ormai celebre, di Poggioreale che ospita più del doppio delle persone che potrebbe alloggiare: oltre 2700 persone.
Chi è dietro le sbarre. Il 46% dei detenuti (circa 30 mila persone) è in stato di custodia cautelare, cioè in attesa di giudizio. Di questi il 77,5% sono stranieri, quasi la metà dei quali (il 30%) finisce dietro le sbarre per trasgressioni che hanno a che fare con le leggi sull'immigrazione. Negli istituti di pena sono sempre meno le persone che scontano pene lunghissime; cresce il numero, al contrario, di coloro i quali scontano sentenze fino a tre anni e potrebbero accedere a misure alternative.
I suicidi. L'anno record del 2009, con 72 detenuti che si sono tolti la vita in carcere, è ormai alle spalle. Ma il 2010 - per così dire - promette bene: nei primi 15 giorni di gennaio, già sei persone hanno deciso di farla finita con la propria esistenza in cella. Negli ultimi 10 anni ad uccidersi sono stati in 1560.
Disoccupazione e bassi salari. L'Istat ci dice che in Italia le persone disoccupate sono l'8,5% dei lavoratori: l'1,5% in più rispetto all'anno precedente. Tra i giovani, dai 15 ai 24 anni, i senza lavoro costituiscono il 26%; nell'Unione Europea lo stesso dato si ferma al 21%. I salari italiani sono tra i più bassi d'Europa. Con stipendi del 17% inferiori alla media dell'area Ocse. Sono circa 13 milioni i lavoratori italiani che guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese e circa 6,9 milioni, di euro ne prendono meno di 1.000. Il reddito delle famiglie operaie e degli impiegati è sceso di 1.700 euro dal 2000 al 2008. A fronte, i professionisti e gli imprenditori hanno invece incrementato i loro redditi con oltre 9.000 euro. Ancora meglio è andata ai manager: i loro compensi sono cresciuti del 38%.
Il lavoro nero vale 92 miliardi. Il numero di lavoratori irregolari è molto vicino ai 3 milioni, il 12% della forza lavoro nazionale. Il valore stimato del "sommerso" è pari a 92,6 miliardi di euro. La metà delle persone è impiegata al Sud. Con il primato alla Calabria, con il 15%. Seguono la Sicilia (12.7%); la Campania (12,2%); la Basilicata e la Sardegna con l'11,7%.
da Repubblica
dal Gruppo Abele, Libera e CNCA a Terni, fino a domenica
La "tre-giorni" sulle politiche sociali:
povertà, carceri piene e lavoro nero
di CARLO CIAVONI
La "tre-giorni" sulle politiche sociali: povertà, carceri piene e lavoro nero
ROMA - Sul tavolo, il Gruppo Abele, Libera e CNCA (il Coordinamento di accoglienza) hanno già pronto il materiale sul quale si metteranno a discutere per tre giorni, a partire da questa mattina fino a domenica. L'appuntamento è al Palatennistavolo di Terni, per la quarta edizione di "Strada Facendo", l'incontro annuale che fa il punto sulle politiche sociali in Italia e prova ad immaginare nuovi modelli di welfare. Tre giorni di riflessioni con sette gruppi di lavoro, oltre 1000 iscritti e 70 relatori. Annunciata la partecipazione di personaggi della politica di prima fila: Pierluigi Bersani, Fabio Granata (finiano del Pdl), Maria Rita Lorenzetti (presidente della Regione Umbria), Nichi Vendola, Paolo Ferrero, Livia Turco... E poi giuristi, economisti, sociologi.
L'idea diffusa di un Paese ingiusto. Ci sarà tanto di cui parlare e innumerevoli saranno gli spunti sui quali riflettere e discutere. Le ricerche e i diagrammi dai quali partirà la discussione, tratteggiano spietatamente i contorni di un'Italia con la soglia della vulnerabilità sociale talmente abbassata da diffondere tra i giovani dai 16 ai 30 anni la certezza di vivere in un Paese che non garantisce a tutti gli stessi percorsi, dove le regole ci sono, ma non valgono per tutti fino in fondo. E dove solo il 10% di chi perde il lavoro è coperto da sussidi, tanto che 1,6 milioni di lavoratori non ha alcun sostegno in caso di licenziamento.
Vecchi e nuovi poveri. La Banca d'Italia ci dice che 2 milioni e 600 mila persone non sono occupate; tra questi sono calcolati anche i disoccupati ormai talmente scoraggiati che un lavoro neanche lo cercano più. La povertà assoluta riguarda il 5% della popolazione, circa 2 milioni e 900 mila persone, gente che non riesce ad acquistare beni e servizi ritenuti essenziali per uno standard di vita minimamente accettabile. Non meno grave la condizione nel "recinto" della cosiddetta "povertà relativa", popolata da circa 2 milioni di persone che vive appena al di sopra della soglia: 50 euro in più dei poveri veri e propri.
La spesa sociale sotto la media UE. La "social card" di Tremonti ha avuto un impatto modesto, sia sulla povertà assoluta, che su quella relativa: un calo delle famiglie "assolutamente povere" di appena lo 0,4%. L'insieme dei provvedimenti del governo rispetto gli indigenti è di 192 milioni di euro, ma ne servirebbero 3, 86 miliardi. Fatta pari a 100 la media aritmetica della spesa pro capite dell'Europa a 15, quella italiana è diminuita progressivamente dall'84% del '97, al 77% del 2006.
Il collasso delle carceri. Nelle celle dei penitenziari italiani sono stipati 20 mila persone in più di quante ne potrebbero contenere. A questo dato oggettivo, che già da sé è all'origine di situazioni inumane e degradanti, si aggiunge anche una cultura della pena detentiva superata e inadeguata, lontanissima dall'idea del reinserimento sociale e del recupero, e sempre più viziata dal concetto di vendetta e rivalsa della società su chi ha sbagliato. Tra i dati a disposizione di chi parteciperà alla "tre-giorni" di Terni, ci sono gli esempi del carcere di Favignana, piccola struttura con 148 detenuti, con la particolarità di essere totalmente sotto terra. E l'esempio, agghiacciante e ormai celebre, di Poggioreale che ospita più del doppio delle persone che potrebbe alloggiare: oltre 2700 persone.
Chi è dietro le sbarre. Il 46% dei detenuti (circa 30 mila persone) è in stato di custodia cautelare, cioè in attesa di giudizio. Di questi il 77,5% sono stranieri, quasi la metà dei quali (il 30%) finisce dietro le sbarre per trasgressioni che hanno a che fare con le leggi sull'immigrazione. Negli istituti di pena sono sempre meno le persone che scontano pene lunghissime; cresce il numero, al contrario, di coloro i quali scontano sentenze fino a tre anni e potrebbero accedere a misure alternative.
I suicidi. L'anno record del 2009, con 72 detenuti che si sono tolti la vita in carcere, è ormai alle spalle. Ma il 2010 - per così dire - promette bene: nei primi 15 giorni di gennaio, già sei persone hanno deciso di farla finita con la propria esistenza in cella. Negli ultimi 10 anni ad uccidersi sono stati in 1560.
Disoccupazione e bassi salari. L'Istat ci dice che in Italia le persone disoccupate sono l'8,5% dei lavoratori: l'1,5% in più rispetto all'anno precedente. Tra i giovani, dai 15 ai 24 anni, i senza lavoro costituiscono il 26%; nell'Unione Europea lo stesso dato si ferma al 21%. I salari italiani sono tra i più bassi d'Europa. Con stipendi del 17% inferiori alla media dell'area Ocse. Sono circa 13 milioni i lavoratori italiani che guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese e circa 6,9 milioni, di euro ne prendono meno di 1.000. Il reddito delle famiglie operaie e degli impiegati è sceso di 1.700 euro dal 2000 al 2008. A fronte, i professionisti e gli imprenditori hanno invece incrementato i loro redditi con oltre 9.000 euro. Ancora meglio è andata ai manager: i loro compensi sono cresciuti del 38%.
Il lavoro nero vale 92 miliardi. Il numero di lavoratori irregolari è molto vicino ai 3 milioni, il 12% della forza lavoro nazionale. Il valore stimato del "sommerso" è pari a 92,6 miliardi di euro. La metà delle persone è impiegata al Sud. Con il primato alla Calabria, con il 15%. Seguono la Sicilia (12.7%); la Campania (12,2%); la Basilicata e la Sardegna con l'11,7%.
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