Foto di gruppo in una Work House inglese. Facendo la genealogia della scuola pubblica, non troviamo le accademie peripatetiche o le istitutrici delle famiglie borghesi; piuttosto, le case dei poveri che disciplinarono i bambini di strada all'inizio del capitalismo industriale.
I.
Ogni
scuola ha sempre vissuto nella contraddizione tra finalità espressa e finalità
reale, cioè tra quello che dice di fare e quello che effettivamente fa. Nello
stato borghese la scuola ha risposto al mandato esplicito di fornire a tutti i
cittadini le nozioni e le competenze necessarie per partecipare alla gara della
vita partendo tutti dalla stessa linea fino ad occupare nella società, grazie
all’impegno e al sudore della fronte, ciascuno il posto che si è duramente
meritato. A fianco e dietro a questo mandato esplicito, ha sempre insistito nella
scuola il mandato sostanziale: quello di confermare, avallare e sacralizzare la
stratificazione sociale, confermando per ciascun individuo il corretto livello
di aspirazioni, la natura delle sue qualità, il posto nel mondo da dover
accettare.
II.
La
finalità sostanziale, ciò che la scuola effettivamente fa, non viene perseguita
attraverso l’istruzione, la conoscenza e la cultura. La produzione degli
effetti reali avviene dentro la scuola attraverso la disciplina, i voti, le
note, le interrogazioni; in generale attraverso la definizione dei “ruoli” e
attraverso particolari modalità di relazione tra i corpi. In questo senso
diciamo che la scuola è un “dispositivo”. Ciò significa che l’oggetto proprio
dell’istituzione scolastica, l’istruzione, non è che un “discorso” che si
sviluppa a partire da un insieme di pratiche concrete, minime, quotidiane, il
cui effetto è quello di produrre un certo tipo di caratteristiche di
“personalità”, un certo tipo di “individui”, soggetti con determinate
caratteristiche funzionali al sistema sociale complessivo.
III.
Appello,
campanella, compiti, voti individuali, disciplina, gerarchie, verifiche, note, promozioni
e bocciature costituiscono l’ossatura della “scolarizzazione”. Con gli effetti
che queste pratiche producono sulla vita degli individui, la scuola ottiene un
primo importante risultato: diffonde e trasmette il valore della scuola in sè.
Forgiando con questi mezzi giovani uomini e donne, afferma continuamente che
l’unico modo per entrare nella vita adulta è sottoporsi all’insieme di pratiche
della scuola stessa. Quelli che all’occhio dell’ideologia costituiscono un mero
strumento, un mezzo tecnico per perseguire il fine dell’istruzione, sono in
realtà la prestazione più importante della scuola. La scolarizzazione si è così
guadagnata il suo ruolo principe come strumento per indirizzare gli uomini alla
produzione industriale e ai rapporti economici della società fordista.
IV.
Nell’era
della produzione postfordista il ruolo della scuola entra in una nuova
fase. Con lo spostarsi della centralità
dalla produzione in fabbrica al consumo, la società non ha più bisogno di masse
di lavoratori disciplinati, rigidamente separate dai quadri amministrativi
della classe dirigente. Il consumatore postmoderno deve soprattutto produrre la
sua personalità, una personalità tale che gli permetta di essere socialmente
incluso: la differenziazione dei desideri, la particolarità delle scelte, il
perseguimento del benessere diventano gli obiettivi primari dei soggetti.
L’identità non è più legata a un posto stabile nella catena di montaggio, ma
deve essere fluida, flessibile, adattabile a una serie di contesti disgregati e
senza orizzonte collettivo. La scuola, come dispositivo fordista, che tiene gli
alunni legati alla disciplina del banco e al valore dell’istruzione, è
condannata ad una irreversibile crisi.
V.
La
scuola, diventata “di massa” in epoca postfordista, perde ogni credibilità
anche come strumento di mobilità sociale in una fase di contrazione economica. Oggi
attraverso la scuola ogni mobilità sociale è divenuta impossibile. E, con
questa, vengono meno tutti i discorsi sulla cultura come emancipazione,
sull’educazione come strumento di progresso. La scuola è condannata ad un
presente eterno, contraddittorio e immobile. Senza nessuna visione di futuro,
riproduce quotidianamente se stessa e il suo “stato di emergenza”.
VI.
L’insieme
di mandati impliciti riservati alla scuola diviene insopportabile. Piuttosto
che esplodere, la scuola si differenzia in sottocategorie che svolgono ciascuna
mandati impliciti e taciuti: gli anni dell’obbligo, immensi raccoglitori di
disagio, gli istituti tecnici, fabbriche di sottoculture, gli istituti di
qualità A, B e C, per mantenere in piedi il fantasma della formazione di elite.
Stressata da queste fratture interne, la scuola sviluppa una nuova identità, è
costretta a subire “colonizzazioni” da discipline pedagogiche, psicologiche e
sanitarie.
VII.
I
cattivi professori di retroguardia, ciecamente legati all’ideologia
dell’istruzione, da decenni lamentano questo stato di cose. L’intrusione
dell’educativo, del pedagogico e del sociale nella scuola. Dietro all’educativo
e al pedagogico, si fa strada la portata di psicologismi, preoccupazioni
sanitarie, attenzioni psichiatriche. Non siamo lontani dai test d’intelligenza
collettivi con cui formare le classi. Attraverso rigidi parametri tecnici, il
controllo sociale diffuso si stende sulla “maggioranza deviante”, che non può
che essere deviante, rispetto ad una istituzione che non si sa più a cosa
serva. Il tutto velato da una costante alternanza di maternalismo e
paternalismo, il volto assistenzialista e il volto autoritario, la mamma e il
papà che alternano e delegittimano reciprocamente le loro funzioni in una casa
alla deriva.
VIII.
La
scuola resta dunque un luogo critico, dove troppe variabili rischiano di
generare il disordine. Allora la strategia consona al potere diventa quella di
incanalare le incertezze in una politica di forza, un politica dell’ordine e
della repressione. Le modifiche negli statuti degli istituti, nei regolamenti
per gli studenti, negli ordini del ministero e nel comportamento dei presidi
vanno chiaramente in questa direzione. Tornelli, sospensioni, denunce,
delazioni, sono gli strumenti di questa gestione amministrativa ansiolitica. In
uno stato di disordine strutturale, il disordine fornisce sempre l’occasione
per riaffermare l’autorità, la disciplina e la forza. Da luogo potenzialmente
esplosivo si cerca di fare della scuola una fabbrica di consenso.
IX
Come
rendere la scuola una fabbrica di consenso? Riempiendola di utili idioti,
intellettuali organici a qualsiasi potere dominante, piccolo borghesi il più
possibile servili e proni, cerimonieri dell’autorità. Meschinità,
corporativismo, amore incondizionato per l’autorità non sono però qualità
innate nell’animo del corpo docente. Essi sono piuttosto il prodotto di un
politica oculata: bassi salari, ricattabilità, competizione tra livelli
professionali,cooptazione, categorie differenziate e gabbie salariali sono il
brodo di coltura di queste qualità dell’animo.
XI.
Il
tutor per l’integrazione degli alunni disabili nasce in questo contesto. Un
dispositivo fordista alla deriva, percorso da venature reazionarie, tenta
affannosamente di “correggere” la sua impostazione sorpassata con un’apertura
ad un modello di welfare più giovane, sussidiario, relazionale, informale. Dal
matrimonio incestuoso tra le due generazioni di welfare nasce una figura
mostruosa. Il tutor, che dovrebbe lavorare sulla inclusione sociale dei
disabili, viene deprofessionalizzato, sottopagato, costretto a un ruolo di
“tappabuchi” per obiettivi didattici ed educativi impossibili da realizzare, ma
senza averne la dignità di categoria.
L’unica
lotta che i tutor possono portare avanti, dunque non può che uscire dalla scuola,
e portarsi alla società che produce la scuola come luogo di inesplicabili
contraddizioni. L’integrazione sociale del mondo è stata compiuta, ora si
tratta di cambiarlo.
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