dare dignità alle pratiche quotidiane La definizione sbrigativa di "degrado urbano", come un contenitore placidamente disposto ad assumere la forma di ciò che vi si conserva, tende a svolgere nel discorso dell'opinione pubblica il ruolo che in certe culture si attribuisce alle parole "Sacre", significanti di concetti che non hanno un referente concreto, ma servono a legittimare le strutture sociali vigenti, a fondarle con un potere mitico per preservarle da ogni movimento - o sommovimento - sociale che possa minarne la stabilità. Allo stesso modo, il concetto di "degrado urbano" raccoglie e nasconde una serie di tensioni reali, lotte, sofferenze, tentativi concreti di emancipazione che - attraverso tale concetto - vengono così esposti all'attenzione comune in modo tale che ne emerga solo l'aspetto riconducibile al disordine, al pericolo, allo sporco.
I quartieri-ghetto emersi dalle politiche di sviluppo urbanistico degli anni '60, rivolti alla finalità encomiabile di costituire sistemi integrati di erogazione di servizi sociali e abitativi alle masse di proletariato urbano cresciute contestualmente al boom economico, costituiscono oggi un ambiente privilegiato in cui le figure sociali della paura e del degrado trovano il loro scenario di rappresentazione; nei quartieri del degrado, le figure tipizzate della paura rappresentano il punto in cui la coimplicazione ricorsiva di discorso e concreta vita sociale si fa evidente e reale. Le figure del degrado, nell'ambiente chiuso del quartiere-ghetto, svolgono un fondamentale ruolo performativo nella concreta esperienza esistenziale degli abitanti del quartiere. Figure del degrado sono quelle rappresentate ogni giorno dai centri di potere informativo-spettacolare e immediatamente trasmesse e fruite da milioni di consumatori nel chiuso dell'esperienza privata, dove ciascuno, al sicuro nella propria intimità, elabora le visoni del mondo e impara le parole con cui definire la realtà. La fruizione di tali immagini informativo-rappresentative crea, nella testa degli abitanti dei quartieri, le grandi categorie in cui inserire gli estranei che percorrono le strade vuote del circondario, le strade spoglie, senza significanti, senza oggetti architettonici e culturali che contribuiscano a dare al luogo un senso condiviso, nel quale ci si riconosca in quanto comunità. E' importante rilevare che la capacità creativa delle immagini dell'informazione-spettacolo aumenta notevolmente quando la massa dei suoi fruitori, degli utenti della merce-informazione, vive in condizioni di isolamento forzato, nel chiuso di abitazioni private entro le quali la carenza di appropriazione comunitaria dello spazio confina l'ambito della sicurezza, del "proprio".
E' proprio agli abitanti di ogni periferia che si può applicare infatti l'analisi di Guy Debord elaborata ne "La società dello spettacolo" per spiegare il "bisogno anormale di rappresentazione" che "compensa qui un sentimento torturante di essere ai margini dell'esistenza"(1). E' innegabile la ulteriore corrispondenza, che si può intravedere nella struttura stessa del territorio delle periferie, tra "consumo di merci spettacolari" e rappresentazione di una centralità, che venga a dare un senso in qualche modo "condiviso" al gruppo comunitario che abita il contesto spoglio della "periferia degradata".
La centralità della grande "fabbrica di consumo" che, con la sua erogazione integrata di servizi di aggregazione, gestione del tempo libero ed espletamento della funzione di mediazione tra bisogni e prodotti, occupa esattamente il punto mediano del quartiere Japigia, quel lembo di città delimitato dalle arterie del trasporto urbano che funzionano come invalicabili argini al movimento autonomo dei singoli - degradati allo stadio "disabilitante" di pedoni - è forse un segno della necessità che il "selvaggio animale popolare" avverte, di riempire con una struttura spettacolare, imponente, ben visibile, il centro di una comunità vuota, i cui confini non sono definiti dalle attività quotidiane di lavoro e socializzazione, ma dai muri e dalle tangenziali imposte da un ritmo troppo veloce per condividerne il senso.
E' ancora importante ricordare, con Alessandro Dal Lago, che "se si escludono le attività di ladruncoli e scippatori (oggetto di una paura diffusa), i mondi criminali non sono altro che luoghi in cui vengono venduti beni e servizi per la società legittima: corpi da usare, sostanze proibite, azzardi clandestini, credito illegale. Il crimine appare il retrobottega di un mondo abbacinato dal denaro e dal consumo"(2). Ciò che, infatti, il concetto di "degrado urbano" tende a nascondere, è che nel funzionamento generale del mercato, del regolatore asettico e universale della fornitura di beni e servizi, la funzione che svolgono le pratiche di "stigmatizzazione", "proibizione", "degradazione", è funzionale allo sviluppo dei significati di certi prodotti e di certi servizi, e della loro appetibilità. Si dimentica volentieri che il "degrado urbano", nel quale si riconoscono certe figure tipiche - spacciatori, prostitute, "sbandati" - è, come abbiamo detto, il contenitore aleatorio nel quale si raccolgono pratiche quotidiane di sopravvivenza e scambio di beni: le zone di degrado vanno cioè viste nella loro connessione strutturale con il resto del tessuto urbano, con i punti centrali e con i valori che dal centro vengono trasmessi. I fruitori di questi beni e servizi destinati al mercato "informale" sono gli stessi che si riconoscono nel discorso pubblico che stigmatizza e condanna il "degrado", ma allo stesso modo, per quanto partecipi di tale discorso, conducono le loro concrete esistenze accompagnati dai torbidi bisogni che sussurrano dietro a ogni unitaria rappresentazione spettacolare del "bene comune".
Nello specifico, è da considerare quanto il "quartiere degradato" agisca nella visione del mondo dei suoi abitanti, delimitando in maniera inequivocabile i confini di ciò a cui si può aspirare, della qualità della vita a cui si è destinati, dell'orizzonte delle proprie capacità di vivere un'esistenza dignitosa. Certo, ciascun uomo si adatta alla dignità che gli è fornita, e la funzione delle gang giovanili che in questi quartieri si scontrano abitualmente, costruendosi identità di sangue, terra, stirpe, (infondate quanto potenzialmente violente) come una squadra di pallone o un gruppo etnico o ancora una subcultura che si identifica in una marca di scarpe, va interpretata proprio alla luce del bisogno sostanziale di identità e di autocoscienza - bisogno basilare che, in un modo o nell'altro, va risolto con la materia prima di cui si dispone. Ma questa dinamica, per quanto riguardi un bisogno individuale e autonomo, non è mai immune dalle relazioni di potere che per le grandi arterie e per le vie traverse dell'urbanismo si snodano: i "pesci piccoli" che popolano il mare tenebroso della "criminalità" che mina la "sicurezza" nei quartieri "degradati", abitano un mare fatto di piccola manodopera ricattabile, costretta a mansioni a cui quell'orizzonte mobile della dignità (già segnato, significato nella struttura concreta del territorio) non tarda ad adattarsi.
Riqualificare un quartiere degradato, quindi, non significa altro che interagire nelle lotte, nelle dinamiche di potere, nelle piccole pratiche quotidiane che ciascun abitante del quartiere mette in opera per i propri necessari tentativi di autocoscienza. Un modo per farlo è mettere in opera esperienze creative che restituiscano dignità a piccole pratiche giornaliere, come quella di spostarsi da un nodo all'altro del reticolato urbano - un reticolato definito dall'imponenza di "blocchi" di edilizia popolare mai terminati, dall'invalicabilità di strade e ferrovie che portano sempre troppo lontano.
Il progetto che qui si presenta, "Accorciare le distanze", ha come finalità proprio quella di costruire occasioni semplici di espletamento di micro-pratiche quotidiane in una ambiente al quale, attraverso un'opera di basso impatto ambientale e bassissimi costi economici, vengano restituiti dignità e riconoscimento. Il fine principale è quello di costruire, attorno alle tattiche di sopravvivenza quotidiana, gli strumenti simbolici per una forma condivisibile di riconoscimento reciproco, che contribuisca a mediare quel senso di disarmante estraneità che l'ambiente "degradato" proietta sulle pratiche quotidiane degli abitanti del quartiere Japigia.
La rigida compartimentazione in blocchi abitativi, pensati come autosufficienti dal punto di vista dei servizi e delle pratiche aggregative, ma rimasti su un territorio brullo e cronicamente "incompiuto" come tristi monoliti di progetti mai ultimati, ha indotto le pratiche quotidiane degli abitanti a rilocalizzarsi attorno alle zone urbanistiche "ufficiali", solcando i terreni inospitali dell'incuria e dell'incolto per compiere le operazioni basilari della sopravvivenza nel quartiere. A fronte di un pezzo di città amputato dal resto delle relazioni urbane attraverso i profondi solchi segnati sull'interazione sociale dalle grandi arterie del trasporto di merci e manodopera, i cittadini del quartiere Japigia hanno imparato a costruirsi vie alternative di spostamento, attraversando i molti terreni rimasti inutilizzati e sottratti all'uso agricolo dalla sedimentazione di tentativi di pianificazione urbana non abbastanza coerenti e realistici. Il reticolato degli "stradoni" e delle ferrovie, assolutamente disfunzionale rispetto allo svolgimento delle normali relazioni necessarie alla vita di quartiere, convive infatti a Japigia con un fitto sottobosco di sentieri, calcati dai passi giornalieri di cittadini circospetti e preoccupati: scorciatoie nel bosco del trasporto "che conta", luoghi privilegiati per incontrare i lupi delle paure diffuse.
Il progetto "Accorciare le distanze" si propone di ridare legittimità architettonica e urbanistica alle pratiche di adattamento sviluppate dai soggetti sociali nel concreto espletamento dei loro bisogni. Inoltre propone di allargare lo spazio del "percorribile" dando un possibile seguito ai "sentieri interrotti" che i muri di cinta, gli steccati eretti tra terreni abbandonati all'incuria, hanno segnato nell'orizzonte di vita degli abitanti del quartiere Japigia. "Accorciare le distanze" è sia un tentativo di rendere dignitosamente percorribili i sentieri scavati dalla concretezza quotidiana di pratiche che, oggi, espongono ciascuno alla paura ed al sospetto, sia la possibilità di aprire sentieri all'immaginario, di ridurre le distanze verticali che confinano ciascuno nello spazio privato delimitato dalla "proprietà" - sottraendo alla comunità qualsiasi possibilità di appropriarsi simbolicamente del luogo in cui risiede. Il tutto nella convinzione che siano le piccole pratiche quotidiane, la dignità che in esse viene riposta e riconosciuta, a delimitare i confini di quell'orizzonte della dignità che invece in troppi vogliono tenere oscurato da paure e muri di cinta apparentemente invalicabili.
Note:
(1) Debord, Guy. "La società dello spettacolo", Milano, SugarCo, 1992
(2) Dal Lago, Alessandro; Quadrelli, Emilio. "La città e le ombre", Milano, Feltrinelli, 2003
questa è l'introduzione per un progetto di riqualificazione urbana del quartiere Iapigia a Bari,gli autori sono: Iolanda Bianchi, Antonela Milano, LucaNegrogno, Silvia Falco e Valentina Simone. Il resto del progetto sarà disponibile dopo la scadenza del bando.