Intervista a Vittorio Lingiardi su Citizen gay
Vittorio Lingiardi è psichiatra, psicoanalista, docente della Facoltà di Psicologia 1 della “Sapienza”. Ha da poco pubblicato un libro dal titolo Citizen Gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale (Il Saggiatore, Milano). Già nel titolo emergono alcuni temi centrali della sua riflessione.
L’omofobia è oscena come il razzismo, però è socialmente molto più accettata: da dove cominciare per invertire la rotta?
Penso che bisognerebbe partire proprio da una legge che riconosca le persone omosessuali nell’integrità della loro fisionomia giuridica e sociale. Come psichiatra, sono sicuro che un effetto collaterale positivo dell’approvazione di una buona legge sul riconoscimento delle unioni civili sarebbe un drastico prosciugamento della palude, psicologica e sociale, in cui prolifera l’omofobia. Non è evidente come l’omofobia, compreso il fenomeno in crescita del bullismo omofobico, si alimenti anche del mancato riconoscimento di un pieno diritto di cittadinanza alle persone omosessuali? Non vengono forse legittimati pensieri come: «Se la Chiesa considera queste persone indegne di formare una famiglia, e se lo Stato ne tollera la convivenza, purché senza celebrazioni e senza diritti e tutele, allora vorrà dire che in fondo, davanti a Dio e agli uomini, questi omosessuali non sono proprio cittadini come gli altri...»?
Finché l’omosessuale chiede di essere compatito è abbastanza “tollerato”; ma quando chiede e rivendica i suoi diritti la reazione cambia: è quasi considerata una pretesa tracotante, come se l’omosessuale fosse una persona che merita meno attenzione e meno rispetto dei cosiddetti “normali”.
Finché l’omosessuale chiede di essere compatito è abbastanza “tollerato”; ma quando chiede e rivendica i suoi diritti la reazione cambia: è quasi considerata una pretesa tracotante, come se l’omosessuale fosse una persona che merita meno attenzione e meno rispetto dei cosiddetti “normali”.
L’espressione “cittadinanza morale”, da lei usata, sembra possa funzionare anche come risposta a quanti hanno un atteggiamento di questo tipo.
Sia come atteggiamento psicologico alimentato dalla cultura sia come attitudine patologica, l’omofobia è nel DNA delle nostre tradizioni sociali, religiose e politiche. Non lo rivelano solo gli anatemi continui, ma anche le cautele, gli imbarazzi e talora anche quell’atteggiamento di “tolleranza” di cui lei parla. Nelle Lettere luterane Pasolini dice: «Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono cioè un “tollerato”». Di nuovo, qui, il valore di una legge. Senza riconoscimento sociale, senza cittadinanza morale, è più difficile che una rappresentazione si consolidi nella mente come legittima e convalidata. Viceversa, nel suo costituirsi come «possibile» e «legittima», questa stabilizzazione toglierebbe alla realtà discriminata il suo contenuto «minaccioso» e implicitamente disincentiverebbe le azioni violente e persecutorie (bullismo, omofobia sociale). Inoltre ridurrebbe l’effetto dell’assimilazione della negatività sociale, cioè l’omofobia interiorizzata, causa della difficoltà ad accettarsi, dell’autodisprezzo, e di comportamenti inconsciamente autodistruttivi in una persona omosessuale. Sono argomenti molto semplici, alla base di qualunque percorso di integrazione delle differenze individuali, culturali, sociali.
I rapporti omosessuali possono essere considerati come un vero e proprio motore di evoluzione sociale, di egualitarismo, di parità: potrebbe essere proprio questo ad irritare i fautori della famiglia patriarcale (e non “naturale” o giusta, come direbbero in tanti)? Un attentato al potere maschile nel senso deteriore di sopraffazione?
Credo che uno dei motivi per cui l’omosessualità tout court (e ancor più un suo riconoscimento sociale) crea avversione, paura, diffidenza, derivi dalla preoccupazione per un disordine psicologico che diventa poi sociale. Una sorta di disagio all’idea che vi sia qualcosa di «femminile» in un uomo e di «maschile» in una donna. Da qui anche il bisogno di darsi una rassicurazione riguardo alla propria «mascolinità» o «femminilità». Un fondamento psicologico dell’omofobia, infatti, consiste in una polarizzazione difensiva dei ruoli di genere, che porta a temere/disprezzare i fantasmi di passività e dipendenza nell’uomo e di attività e autosufficienza nella donna. Si tratta di una difesa abbastanza primitiva, ancorata a un’idea ingenua e concreta dell’anatomia e della scena dell’accoppiamento – ma efficace nel lasciare le cose «al loro posto». Una donna che ama un’altra donna stravolge la regola patriarcale per cui è il rapporto con il pene che la penetra e la feconda a offrirle la possibilità di essere «completa». È una donna che tradisce la sua missione di madre e di moglie. Un uomo che ama un altro uomo evoca il fantasma della passività, si «femminilizza» e rinuncia alla sua «vocazione» patriarcale. In questo senso possiamo dire che le persone omosessuali implicitamente contribuiscono a decostruire gli stereotipi di genere. Il che però non significa che, come le persone eterosessuali, esse non possano esprimere in mille modi diversi i ruoli di genere e ciò che comunemente si intende per “maschile” e “femminile”. Rimane il fatto che una donna senza un uomo al suo fianco è facilmente ridicolizzata: è una suora, una zitella o una lesbica. E ridicolo o inutile è l’uomo che non si porta a letto una donna (un imbranato, un impotente o un finocchio). In entrambi i casi si tratta di uno spreco, una stranezza, una sovversione improduttiva. Il legame tra maschilismo e omofobia è evidente.
(Ostraciscmo omosessuale, Agenda Coscioni, gennaio 2008)
e il legame tra omosessualità e ipocondria?nn vogliamo considerarlo?
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