Come sempre il modo è sostanza del discorso. Lo conferma la strana piega del dibattito mediatico sullo scambio fra sesso e potere, innescato dalle pubbliche esibizioni della «virilità» del premier. Sulla «miseria della mascolinità» che sta andando in scena dovrebbero essere gli uomini a dire qualcosa, ha osservato giustamente Tamar Pitch (
il manifesto, 3 agosto). È un silenzio, quello degli uomini sulla mascolinità che parla di impotenza a dare senso alla sessualità. E dunque alle relazioni. E che genera arroganza, simbolica e fisica, proprio perché quell’impotenza è negata. Invece di incalzarlo, su
Repubblica e su
l’Unità si lamenta il «silenzio delle donne». Torna così la più classica rappresentazione, maschile, delle donne. Sono loro le responsabili di quella miseria, sessuale e politica, perché «apprezzano» (o apprezzerebbero) questa mascolinità. Da qui il dibattito sul consenso – femminile!- a Berlusconi, l’uomo e il politico. E sull’identificazione, rassegnata o complice, con l’immagine, degradata e degradante, della donna-oggetto. Che sarebbe la sola, oltre che la solita, offerta dalla Berlusconi story.
Della quale, inforcando gli occhiali patriarcali dei ruoli tradizionali, si perde di vista inevitabilmente il fulcro, con quello che di inedito segnala sulla sessualità e sulla politica. O meglio, come ha scritto Bianca Pomeranzi (
manifesto, 18 agosto), sui fili che costituiscono l’ordito comune all’una e all’altra. Su questo sì, merita discutere, sui giornali e non solo. Tra donne, e tra donne ed uomini. Creando, come abbiamo fatto tante volte in questi anni, occasioni e sedi di una sfera pubblica che interagisca con i media, senza dipenderne.
Da mesi Ida Dominijanni offre su questo giornale la lettura più acuta e convincente della vicenda, collocandola nello scenario del «dopo-patriarcato» e smascherando gli equivoci più comuni, cari a uomini (e donne) politici di destra, e di sinistra. In breve, sono due i punti sui quali riflettere. Il primo è il sistema di scambio tra potere, sesso e denaro. Costruito e imperniato sul premier e la sua corte, chiama in causa la politica tutta, e la società. Ed è fenomeno con forti, preoccupanti, connotati nazionali. Ma non è solo e tutto riducibile ad un’anomalia italiana. Il secondo è che questo sistema coinvolge, ovviamente, le donne, ma spesso e volentieri queste non stanno al posto loro assegnato.
Tornando alla parola e al silenzio. Vi è un rovesciamento delle parti che può apparire singolare (di fatto è ignorato) solo a chi non ha esperienza o conoscenza delle pratiche femministe. A prendere parola pubblica sono state infatti donne del e dal privato: la moglie, Veronica Lario, l’escort Patrizia D’Addario, la figlia Barbara Berlusconi. Ed altre. Viceversa c’è stato silenzio, pesante, delle donne delle istituzioni politiche. Soprattutto nell’area dell’opposizione. Rotto solo tardivamente da alcune, segnalando difficoltà e reticenze. Oppure, dalle file della maggioranza, c’è stata parola «a difesa» di Berlusconi. Da una posizione che si può definire «privata», perché dettata da e volta a ribadire la relazione con l’uomo. E a ricondurre le altre, la moglie e l’escort innanzitutto, al loro ruolo. Privato, per l’appunto.
Comunque, come ha più volte ricordato Dominijanni, se questa storia, tutta politica, è pubblica, è per quello che ne hanno detto le donne. Prima tra tutte Veronica Lario. Come ha scritto la redazione del sito della Libreria delle donne di Milano: «Per noi, a noi, Veronica Lario ha parlato chiaro e forte, la sua voce è stata intesa da parecchie persone e altre donne hanno parlato accreditando le sue parole come parola femminile indipendente dalla logica del potere».
È questo discorso a più voci che ha messo a nudo il sistema di scambi tra potere,sesso e denaro. E la miseria della mascolinità. Ed ha altresì evidenziato quanto siano ormai diversificati i modi femminili di farci i conti. Non tutti, ovviamente, apprezzabili. Vi è un guadagno prezioso per tutte in questo. Non siamo più costrette a dividerci tra sante e puttane, tra donne in carriera e mogli. Ma è un guadagno che va perduto se prevale l’abitudine, dura a morire, a non riferirsi esplicitamente alla parola di altre. Per confermare e approfondire. Per correggere o per dissentire. Come non c’è il «silenzio delle donne» , così «le donne» non parlano all’unisono. Non è (più) possibile e neppure auspicabile.
Per alcune, invece, c’è parola femminile solo se c’è grido collettivo. Di più, solo portando «i nostri corpi in piazza» si vince la passività e la rassegnazione (Lidia Ravera,
l’Unità 12 agosto). È stato ripreso da molte nelle lettere al giornale, il suo invito a «contarsi per ricominciare a contare». Per riprendere la rivoluzione interrotta del femminismo. Mobilitazione o no, sono in diverse a leggere la «Berlusconi story» come restaurazione del maschilismo. Sintomo o effetto del declino del femminismo. Per Eva Cantarella (
l’Unità 26 luglio) è anzi la conferma della «doppia morale, come se nulla fosse accaduto negli ultimi decenni». Tanto più sconfortante, per noi, se sono le giovani che «si lasciano abbagliare da vecchi uomini potenti» (Nadia Urbinati,
la Repubblica 30 giugno).
Ma è davvero così? A noi sembra che la Berlusconi story parli di altro. Certo, la complicità femminile non è finita. Certo, il potere è ancora, largamente, nelle mani degli uomini. E dunque vi sono donne che accettano lo scambio fra sesso e potere. Nelle forme prodotte dalla pervasiva privatizzazione del pubblico. Contrattano posti e carriere politiche, non si accontentano dei regali. Ma né Patrizia D’Addario né le altre «intrattenitrici» sembrano «lasciarsi abbagliare» da vecchi uomini potenti. Molte di loro ridono di una sessualità, compulsiva e ossessiva, figurata più che praticata. Quanto al potere, sembrano adattarsi alla logica del mercato che ha invaso a piene mani la politica, più che subire il fascino del maschio potente. A conferma che gli uomini hanno potere ma hanno perduto autorità. E vi si aggrappano ferocemente, nell’illusione di compensare questa perdita.
Questa miseria, della politica e della sessualità, ci preoccupa e ci interroga. Ci preoccupa la paura, di cui ha scritto Pitch, che troppi uomini hanno della libertà delle donne. Comunque si manifesti. Nella contrattazione del sesso, nella parola pubblica di una moglie, nell’autonomia delle scelte di vita. O nella presa di distanza dalla (loro) politica. Ci preoccupa la diffusa incapacità maschile, in tante situazioni e rapporti, a cimentarsi in relazioni con donne non subalterne. E la resistenza ad assumersi l’onore e l’onere di mutare discorso e pratiche della sessualità maschile. Persistendo nella tendenza a fare dei rapporti tra i sessi un «problema di donne». Fatta salva la loro pretesa di dettare legge sui corpi. Ma anche questa, nonostante tutto, è un’arma spuntata del potere. Può fare male, molto male, ma non fa più ordine.
Se non si collocano gesti e parole, di donne e di uomini, nello scenario del «dopo patriarcato», non si capisce, alla lettera, quello che accade. Ed è inutile, oltre che arduo, provare a reinventarsi i ruoli e le identità di genere. Non fanno più presa sui corpi che siamo. E non danno più senso e futuro alle vite e alle storie. La Berlusconi story sancisce la fine non solo della politica di genere e delle pari opportunità (Natalia Aspesi (
Repubblica, 13 maggio). Ma complica anche l’analisi della contrapposizione tra oppresse e oppressori. E la conseguente ricetta della mobilitazione di massa per rovesciare il potere.
fonte
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