Oltre due milioni di persone sono attese domani, a Washington, per la cerimonia di insediamento di Barack Obama, 44esimo presidente degli Stai uniti e primo afroamericano ad insediarsi alla Casa Bianca. Un mandato difficile che cade in uno dei periodi più bui della storia americana. Una difficoltà di cui lo stesso Obama è ben consapevole: "La nostra nazione è in guerra, la nostra economia è in crisi, milioni di americani hanno perduto i loro posti di lavoro o le loro case". E’ lucido Barack ma anche fiducioso: "Nel corso della nostra storia, è stato chiesto solo ad una manciata di generazioni di affrontare sfide serie come quelle di oggi e non sarà facile. Ci vorrà più di un mese o di un anno, e probabilmente ce ne vorranno molti. Lungo la strada vi saranno battute d'arresto e false partenze, e giorni che metteranno alla prova la nostra determinazione come nazione ma sono ottimista che gli Stati Uniti riusciranno a resistere e che il sogno dei nostri padri fondatori andrà avanti”.
Insomma, “We are one” e quindi ce la faremo. E veramente l’America sembra una cosa sola in questi giorni di festeggiamenti (il cui budget, 150 milioni di euro, è stato peraltro fortemente criticato dai repubblicani). Lo hanno dimostrato le centinaia di migliaia di persone che, giunte da ogni parte degli States, si sono ritrovate ieri davanti al Memorial Lincoln per assistere ai festeggiamenti in onore di Barack. Ed è proprio a Lincoln, il presidente “che abolì la schiavitù e che salvò l’Unione” che va uno dei primi pensieri di Obama: “Senza di lui questo giorno non sarebbe stato possibile”. Ma nel parco del Memorial risuona anche un’altra voce, quella di Martin Luther King: “Qui – dice Obama – ancora si riflette il sogno del reverendo King e la gloria di un popolo che marciò e diede il sangue perché i suoi figli potessero essere giudicati non dal colore della pelle ma dal contenuto del loro carattere”.
“We are one” ribadisce Barack mentre si appella all’unità del Paese in nome del superamento di ogni differenza: tutti insieme “democratici e repubblicani, bianchi e neri, asiatici e latinos, gay e non, insieme possiamo farcela”.
“We are one”, Obama lo dice e lo ripete mentre a cantarlo sono le “stelle” che si esibiscono sul palco “in suo onore”. Da un magico Boss che apre il concerto con le note di “The rising” e lo chiude, insieme a Pete Seeger, con quelle di “This land is our land”, da Aretha Franklin agli U2, da Stevie Wonder a Beyoncé, da Tom Hanks a Denzel Washington.
Un bagno di folla per Obama che da dopodomani, però, sarà costretto ad affrontare tutte le difficoltà del suo mandato: la guerra in Iraq e Guantànamo, la sanità e la recessione, l’istruzione pubblica e l’integrazione razziale. Ce la farà e da dove dovrebbe cominciare? Per ora si “limita” ad affermare: «C'è una intera generazione che crescerà dando per scontato che il più importante ufficio al mondo è occupato da un afroamericano. Questa è una cosa radicale. Cambia il modo in cui i bambini neri guardano a se stessi. E cambia anche il modo in cui i bambini bianchi guardano ai bambini neri. Io non sottovaluterei la forza di questo». Non è poco come inizio.
da www.ilmanifesto.it
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