In questa direzione stiamo assistendo allo “svecchiamento” e alla ridefinizione del ruolo e del significato degli apparati di controllo. Le polizie diventano sempre più “di confine”, perché i confini si moltiplicano e si rinforzano ai bordi ma anche all’interno delle nostre società. Diventano confini politici ancor prima che spaziali. E il sapere di polizia che meglio si adatta a queste nuove definizioni assomiglia sempre più terribilmente a un sapere “di guerra”. Il deviante diventa un nemico da neutralizzare, con le buone o con le cattive. Non a caso nel mondo rappresentiamo un “modello” con i nostri carabinieri. Forze di guerra e di polizia al tempo stesso, in grado di difendere sia i pozzi di petrolio di Nassyria, sia i cancelli dei lager per migranti, sia le zone rosse di ogni tipo che proliferano all’interno delle nostre metropoli. Le questure e le caserme, in questo, somigliano sempre più a quartier-generali in cui si pianifica la guerra alla devianza, alla (micro-)criminalità, al conflitto sociale.
Filippo Del Lucchese, http://www.centroriformastato.it/crs/Testi/guerra_2/fdelluchese
In modo ancora più innaturale che nella pena di morte, mescolate quasi in modo spettrale, queste due forme di violenza sono presenti in un’altra istituzione dello Stato moderno: la polizia. La quale è certo un potere a fini giuridici (con diritto di disporre), ma anche con la contemporanea autorizzazione ad allargarli entro limiti molto ampi (con diritto di ordinare). Il colmo dell’ignominia – che per altro viene avvertita solo da pochi, anche perché solo raramente essa si autorizza a raggiungere i livelli di intervento più grossolani, potendo naturalmente operare tanto più alla cieca nei settori più vulnerabili e contro le persone che sanno, di fronte alle quali le leggi non bastano a difendere lo Stato – questa autorità lo raggiunge nel momento in cui sopprime la divisione tra i due poteri di porre e di conservare il diritto. Se dal primo potere si esige di dimostrare di aver vinto, il secondo deve limitarsi nel proporsi nuovi fini. Il potere poliziesco si emancipa da entrambe le condizioni. Esso è potere che instaura il diritto – la cui funzione caratteristica non è promulgare le leggi ma dispensarsene in ogni modo, con decreti emanati con forza di diritto – ed è potere che conserva il diritto, posto a disposizione di quei fini. L’affermazione che i fini del potere poliziesco siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del restante diritto è completamente falsa. Anzi, il “diritto” della polizia mostra fino a che punto lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti a ogni ordinamento giuridico, non riesca più a garantirsi con l’ordinamento giuridico il raggiungimento dei propri fini empirici che pur intende raggiungere a ogni costo. Perciò la polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in numerosi casi in cui non sussiste una situazione giuridica chiara, quando non accompagna il cittadino come brutale vessazione senza alcun rapporto con fini giuridici attraverso una vita regolata da ordinanze o addirittura non lo sorveglia. Al contrario del diritto, che riconosce nella “decisione” spaziotemporale precisamente determinata hic et nunc una categoria metafisica, attraverso cui si espone alla critica, il trattamento dell’istituto poliziesco non incontra nulla di sostanziale. Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove nella vita degli stati civilizzati. Anche se nei dettagli la polizia sembra dappertutto uguale, non si può alla fine misconoscere che il suo spirito è meno devastante là dove rappresenta, come nella monarchia assoluta, il potere del sovrano, dove confluiscono pienamente il potere legislativo ed esecutivo, rispetto alle democrazie, dove la sua presenza, non sostenuta da un simile rapporto, testimonia la massima degenerazione pensabile del potere.
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