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Intervento del Prof. Sandro Mezzadra pubblicato su «La Revue Internationale des Livres & des Idées» (RiLi), n. 9 (janvier-février 2009)
Nel pacchetto sicurezza approvato dal Senato in questi giorni sono molte le norme che inaspriscono le condizioni di vita dei migranti dentro uno scenario di crisi epocale destinato a consolidarsi come qualcosa di paradigmatico, strutturale. Ma tra i tanti provvedimenti restrittivi, a sorpresa, il governo è stato battuto con voto sfavorevole su uno dei punti definiti più qualificanti dallo stesso Ministro dell’Interno Roberto Maroni, il prolungamento fino a 18 mesi dei tempi di detenzione all’interno dei centri di identificazione ed espulsione (come previsto dalla direttiva europea sui rimpatri). Il Viminale ha già annunciato l’intenzione di ripresentare la proposta all’interno della discussione del ddl 733 alla Camera. Si prefigura quindi la possibilità che il provvedimento torni al vaglio del Senato una volta modificato dall’altra aula del Parlamento. Può l’esecutivo rinunciare a questo strumenti di governo dei movimenti migratori dentro a questa fase di crisi caratterizzata dall’esubero, dall’espulsione dal mercato del lavoro di moltissimi migranti e quindi dalla presenza di un esercito sociale più che industriale di riserva precario, disponibile, pronto ad essere utilizzato nel quadro di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro? Ovvio che la questione del prolungamento ha anche e soprattutto un alto valore simbolico e retorico nella costruzione della figura del migrante come nemico, come pericolo. Non di meno, l’utilizzo del campo, è anche qualcosa che ha a che vedere con la necessità di flessibilizzare le possibilità di detenzione in funzione dell’utilizzo politico delle tanto acclamate espulsioni. La questione non è di facile soluzione, anzi, quello che abbiamo all’orizzonte è un quadro caratterizzato dall’impossibilità di definire conclusioni certe. Piuttosto, all’ordine del giorno, si pone il problema dell’inchiesta, della comprensione, dell’interrogativo permanente. Per questo vi proponiamo questo articolo (e due ricche bibliografie commentate) scritto dal Prof, Sandro Mezzadra, docente presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, autore del saggio "Diritto di fuga" e promotore della rete Uninomade.
testo:
18 mesi: è questo il tempo massimo di permanenza dei migranti nei centri di detenzione amministrativa fissato dalla direttiva europea sui rimpatri (giugno 2008). A tutti gli effetti la detenzione amministrativa è così riconosciuta come una pietra angolare delle politiche migratorie europee. Nel cuore del territorio della UE, ai suoi confini e al di là di essi i centri di detenzione, nelle molteplici forme giuridiche e organizzative in cui si presentano, si sono moltiplicati negli ultimi anni: è un’altra geografia dell’Europa quella che così prende forma, che si sovrappone a quella della «cittadinanza europea» senza coincidere con essa e mostrando piuttosto il carattere strutturalmente instabile di quest’ultima. I centri di detenzione sono uno dei dispositivi fondamentali attraverso cui i confini dell’Europa si insinuano all’interno del suo stesso territorio e si flettono fino a raggiungere quei paesi più o meno vicini (dal Marocco alla Libia all’Ucraina) in cui esistono centri di detenzione finanziati e in parte gestiti dall’Unione europea. È la stessa secca alternativa tra dentro e fuori, tra inclusione ed esclusione, a essere messa in discussione da questi istituti, che esibiscono così – lo ha brillantemente mostrato Federico Rahola in un saggio recente(1) – una continuità essenziale con la forma-campo. Attorno al tema del campo, della sua genealogia e della sua diffusione contemporanea, si è andata accumulando una gran mole di letteratura – storica, antropologica, filosofica – negli ultimi anni. La parola stessa non è oggi più legata a doppio filo all’esperienza dei “totalitarismi” novecenteschi, non richiama più immediatamente l’«universo concentrazionario» nazista: essa indica piuttosto un dispositivo (una forma, appunto) che ha conosciuto un gran numero di manifestazioni in particolare nella storia coloniale moderna, ma anche nei territori metropolitani europei. A tutti gli effetti, il campo rientra tra gli istituti caratteristici dello Stato moderno. E si presta anzi a offrire un punto di vista affatto specifico, e tuttavia rivelatore, a partire dal quale rileggere la storia di quest’ultimo. È questo il punto di partenza del libro di Marc Bernardot (Camps d’étrangers, Bellecombe-en-Bauges, Éditions du Croquant [Collection TERRA], 2008, pp. 223, 18, 50 euro), professore di sociologia alla Université du Havre, che si sofferma su un tipo particolare di campo – il «campo per stranieri», appunto – proponendone una definizione precisa: «un regroupement imposé et arbitraire de civils enfermés sans jugement en dehors du système pénitentiaire, visant à les isoler, les expulser, les rééduquer ou les faire travailler». Il libro è organizzato in tre parti, che ruotano attorno ai tre assi della sociostoria di una parola, di una tecnica e delle popolazioni internate. Ed è il caso di osservare preliminarmente che nell’arco storico analizzato da Bernardot, soprattutto in riferimento al caso francese, è lo stesso significato del termine “stranieri” ad assumere significati diversi, a cui corrispondono mutamenti significativi nelle funzioni e nella natura dei campi. Con l’inizio della prima guerra mondiale, il campo si presenta sulla scena come spazio di internamento per i cittadini dei Paesi nemici. Ma la fine della guerra non coincide con la fine dei campi: «un ensemble de lieux potentiels d’internement», scrive piuttosto Bernardot, «sera dorénavant disponible de même qu’un corpus de textes et de règles». A popolare questi luoghi saranno in particolare profughi e soggetti coloniali presenti nello spazio metropolitano, due categorie di soggetti che occupano una posizione del tutto anomala rispetto all’opposizione secca tra cittadini e stranieri, di cui mostrano anzi le incrinature e l’incipiente crisi. I campi per gli stranieri giocano un ruolo essenziale precisamente nel governo e nel controllo di questa crisi: la sociologia storica dello Stato proposta da Bernardot attraverso lo studio di questi campi finisce così per offrire, ed è forse questa la ragione di maggior fascino del libro, uno sguardo liminale, una ricostruzione della vicenda dello Stato moderno a partire dal suo confine interno. Posto a presidio di questo confine, il campo per stranieri è del resto tutt’altro che uno spazio “marginale”: nella prospettiva di Bernardot, che integra sociologia storica dello Stato, sociologia delle migrazioni e sociologia urbana, esso costituisce piuttosto una lente che permette di analizzare le grandi cesure che segnano sia le politiche migratorie sia l’organizzazione degli spazi metropolitani.
Il dispositivo del campo
Il campo analizzato da Bernardot ha dunque uno statuto per definizione ambiguo, costituendosi nel punto di incrocio tra una logica essenzialmente repressiva e una logica umanitaria, di protezione. Se da una parte sorge per separare dallo spazio della cittadinanza gruppi di popolazione presentati come pericolosi, dall’altra esso è lo spazio in cui lo Stato si fa carico della presenza sul suo territorio di popolazioni bisognose di assistenza. Mise à l’ecart e messa sotto tutela si intrecciano, fino a confondersi, nella definizione del «campo per stranieri». Non solo: il campo per stranieri pone in discussione ogni immagine lineare, evolutiva, della storia dello Stato moderno. Disciplina, biopolitica e controllo, tre termini che secondo un diffuso senso comune “foucaultiano” si presterebbero a indicare tre fasi successive nello sviluppo dei moderni regimi di potere, definiscono qui modalità e logiche di funzionamento dell’istituto contemporaneamente presenti. Il campo per stranieri combina infatti processi di organizzazione disciplinare – su un modello essenzialmente militare – con minuziose procedure di presa in carico della “vita” degli internati, la cui stessa soggettività appare sospesa tra i due poli del nemico pubblico e della vittima potenziale. Considerati lungo l’intero arco della loro storia novecentesca, del resto, i campi esibiscono caratteri di aleatorietà nella gestione dei «flussi» di popolazioni straniere che anticipano alcuni elementi costitutivi della società di controllo.
Non cittadini nello spazio politico nazionale
Sotto il profilo storiografico, uno degli elementi maggiormente originali del lavoro di Bernardot consiste nel mostrare la funzione essenziale dei campi nella gestione della presenza nel territorio metropolitano dei “sudditi coloniali”, come lavoratori o come soldati, a partire dalla prima guerra mondiale. L’elemento di segregazione spaziale, di separazione di questi soggetti dai cittadini metropolitani, consente da questo punto di vista di ricostruire un continuum di misure di sorveglianza e controllo che ha nel campo la propria matrice ma che si distende nei territori circostanti, assegnando a spazi abitativi segregati i lavoratori coloniali nei bacini industriali e prefigurando la specificità francese dei «foyers de travailleurs migrants». Ma al tempo stesso il campo, Bernardot lo mostra in modo particolarmente efficace a proposito del caso di Larzac negli anni della guerra di Algeria, si presta a essere analizzato come un vero e proprio «spazio politico», in cui la mobilitazione degli internati sovverte continuamente le linee di divisione attorno a cui si organizza il controllo delle autorità e anticipa comportamenti e rivendicazioni che sarebbero stati al centro delle lotte urbane e industriali dei migranti negli anni Sessanta e Settanta. Si tratta certo, al di là del caso specifico di Larzac e del contesto della guerra di Algeria, di mobilitazioni che incontrano difficoltà enormi, che scontano la “debolezza” dei soggetti internati e i problemi derivanti dal fatto che «les mobilisations de non-citoyens sont structurellement impensables dans l’espace politique national». E tuttavia i campi non sono mai stati, e non sono oggi, spazi pacificati: mi pare un’ulteriore indicazione preziosa di Bernardot, che ci mette implicitamente in guardia dal considerare come mere “vittime” i soggetti che li abitano, secondo una retorica condivisa sia da molte organizzazioni umanitarie che partecipano alla gestione dei campi sia da una parte degli attivisti che si battono contro di essi.
Plasticità della forma-campo e metamorfosi della questione sociale
Nel suo complesso, proprio grazie alla prospettiva di lungo periodo assunta dall’autore, l’analisi di Marc Bernardot presenta il campo per stranieri come «une hypostase d’institution sociale en recomposition permanente en fonction des circonstances sans se fixer dans une forme définitive». È proprio l’insistenza sul carattere proteiforme e flessibile del campo l’aspetto più importante del libro. Internamento e segregazione degli «stranieri» ne costituiscono indubbiamente caratteri strutturali, con il carico di violenza che ciò comporta. Ma per comprendere – e per criticare efficacemente – le funzioni svolte dal campo per stranieri non è sufficiente soffermarsi su questi aspetti. È piuttosto lo statuto ambiguo dell’istituto, su cui ci siamo in precedenza soffermati, a renderlo straordinariamente flessibile e adattabile al mutare delle circostanze storiche (e dunque non riducibile a un generale e generico «paradigma biopolitico della modernità», per riprendere la tesi di Giorgio Agamben). Legato a doppio filo alle politiche migratorie, il campo ne asseconda gli imperativi di controllo, selezione e protezione, ponendosi come una sorta di garanzia in ultima istanza dell’equilibrio – strutturalmente instabile – tra di essi. Esemplare, in questo senso, è il rapporto ambivalente che il campo intrattiene con il lavoro. «Pour les migrants en général», scrive Bernardot, «et plus particulièrement pour les populations en provenance des (ex) colonies, le travail constitue à la fois une justification centrale de la présence sur le sol du pays d’accueil et une manière de le rendre invisible»: il campo interviene precisamente, con la smobilitazione degli algerini nella regione di Parigi alla fine della prima guerra mondiale così come dopo i grandi scioperi degli anni Settanta, nel momento in cui la perdita del lavoro rende la presenza dei lavoratori coloniali o dei migranti al tempo stesso illegittima e visibile. Può costituire così uno spazio di contenimento di una riserva di forza lavoro da impiegare in modo flessibile (in formazione permanente attraverso l’organizzazione del lavoro all’interno del campo stesso) così come l’anticamera dell’espulsione: e si presta dunque a funzionare in modo particolarmente efficace come camera di decompressione delle tensioni che si accumulano su un mercato del lavoro quale quello contemporaneo, riorganizzato all’insegna di una domanda di lavoro just in time. Nel contesto contemporaneo, caratterizzato dalla «crisi dell’asilo», dalla «militarizzazione della questione sociale» e dall’«emergenza» dell’immigrazione irregolare, il libro di Bernardot richiama così la nostra attenzione sulla diffusione pervasiva (sulla «plasticità» e sulla «miniaturizzazione») della forma-campo. La stessa tendenza, evidente in tutta Europa, all’allungamento dei tempi di detenzione e all’aumento delle «capacités d’enfermement», più che delineare un unico modello di detenzione in funzione della chiusura ermetica dello spazio europeo ai profughi e ai migranti, sembra allora incrementare i margini di arbitrarietà (e di plasticità) nella gestione del «campo per stranieri». E una volta di più l’analisi dei campi, e la lotta contro di essi, non possono prescindere da una comprensione dei modi molteplici in cui essi si inseriscono all’interno di un processo di più generale trasformazione della geografia sociale e produttiva in Francia come nel resto d’Europa. Già lo si accennava a proposito della riorganizzazione del mercato del lavoro all’insegna della “flessibilità”: i migranti che abitano lo spazio dei campi vivono ed esprimono – in forme drammatiche – una condizione liminale, sospesa tra dentro e fuori, tra inclusione ed esclusione, che il capitalismo contemporaneo tende a riprodurre per una pluralità di soggetti, mettendo radicalmente in discussione l’immagine (e la realtà materiale) di una cittadinanza costruita sulla piena integrazione all’interno di quello che Etienne Balibar ha definito lo «Stato sociale nazionale»(2). Pur collocati fisicamente ai margini della nostra esperienza quotidiana, i «campi per stranieri» si confermano così luoghi privilegiati a partire dai quali leggere criticamente i conflitti e le tensioni che vivono al cuore del nostro presente.
di Sandro Mezzadra
Note:
(1) - La forme-camp. Pour une généalogie des lieux de transit et d’internement contemporaine, in «Cultures & Conflits», n° 68, hiver 2007.
(2) - É. Balibar, Droit de cité. Culture et politique en démocratie, l’Aube, La Tour d’Aigue 1998. vedi anche: Pacchetto sicurezza - Il controllo sulla vita. La vera emergenza è il razzismo
Bibliografia commentata sui campi
Un ruolo molto importante nell’avvio di una nuova stagione di studi sulla “forma campo” è stato svolto dalla pubblicazione del libro di G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, seguito tre anni dopo da Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Le tesi di Agamben, secondo cui il campo costituisce il paradigma politico della modernità, hanno esercitato una grande influenza sia nel dibattito sul post-11 settembre sia all’interno degli studi sulle migrazioni e in particolare sui rifugiati, soprattutto in ambito anglosassone: si vedano ad esempio S. Perera, What is a Camp?, in «Borderlands e-journal», 1, 2002 e P. Nyers, Rethinking Refugees. Beyond States of Emergency, New York – London, Routledge, 2006. È il caso poi di segnalare almeno due opere generali dedicate alla storia dei campi: A. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Torino, Bollati-Boringhieri, 1997 e J. Kotek, P. Rigoulot P., Le Siècle des camps. Détention, concentration, extermination, cent ans de mal absolu, Paris, J.-CLattès, 2000, a cui si possono utilmente aggiungere la prima parte del libro di F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Verona, Ombre corte, 2003, che sottolinea in particolare l’origine coloniale del campo di concentramento e il recentissimo volume di J. Brunati, De l’esclavage des Noirs à celui des camps nazis, Paris, L’Harmattan, 2008. Un lavoro molto importante sul sistema concentrazionario nazista, ampiamente ripreso nel dibattito successivo, è quello di W. Sofski, Die Ordnung des Terrors. Das Konzentrationslager, Frankfurt a.M., Fischer, 1993, mentre è appena uscito l’ottavo volume dell’opera curata da Wolgang Benz e Barbara Distel, Der Ort des Terrors. Geschichte der Nazionalsozialistischen Konzentrationslager, München, Beck, 2008. Per quel che riguarda i centri di detenzione per migranti in Europa, si possono vedere, all’interno di una letteratura molto ampia, i seguenti volumi, ricchi di riferimenti al dibattito sulla «forma campo»: M.-C. Caloz-Tschopp, Les Etrangers aux frontières de l’Europe et le spectre des camps, Paris, La Dispute, 2004, «Cultures & Conflits», n° 57, printemps 2005 (numero monografico dedicato a L’Europe des camps), «Conflitti globali», 4, 2006 (numero monografico dedicato a Internamenti: CPT e altri campi), H. Courau, Ethnologie de la Forme-camp de Sangatte: De l’exception à la régulation, Paris, Archives contemporaines Editions, 2007, O. Le Cour Grandmaison – G. Luhilier – J. Valluy (eds), Le retour des camps? Sangatte, Lampedusa, Guantanamo…, Paris, Editions Autrement, 2007, F. Sossi, Autobiografie negate. Immigrati nei Lager del presente, Roma, Manifestolibri, 2002, M. Rovelli, Lager italiani, Milano, Rizzoli, 2006 e T. Pieper, Die Gegenwart der Lager: Zur Mikrophysik der Herrschaft in der deutschen Flüchtlingspolitik, Münster, Westfälisches Dampfboot, 2008, M. Agier, Gérer les indésirables. Des camps de réfugiés au gouvernement humanitaire, Paris, Flammarion, 2008. Ricco di riferimenti alla funzione dei centri di detenzione è infine il volume curato da N. De Genova e N. Peutz, The Deportation Regime: Sovereignty, Space, and the Freedom of Movement, Durham, NC, Duke University Press, 2009.
Bibliografia commentata su frontiere, cittadinanza e migrazioni
A lungo, nel corso del secondo dopoguerra, è prevalsa nel dibattito teorico occidentale un’immagine della cittadinanza che ne sottolineava i caratteri di inclusione e di integrazione, secondo la lezione del grande sociologo britannico T.H. Marshall (Cittadinanza e classe sociale, ed. or. 1950, ed. it. a c. di S. Mezzadra, Roma – Bari, Laterza, 2002). È a partire dagli anni Ottanta, con il manifestarsi della crisi dello Stato sociale e con le nuove sfide portate dalle migrazioni transnazionali, che la funzione esclusiva della cittadinanza è stata riscoperta ed è divenuta centrale all’interno delle scienze sociali, giuridiche e politiche. Un libro di notevole importanza, da questo punto di vista, è ad esempio quello di R. Brubaker, Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1992. Il rapporto tra cittadinanza e migrazioni è stato conseguentemente analizzato da molti autori ponendo in evidenza l’esclusione dei migranti dallo spazio della cittadinanza: emblematico, in questo senso, è il libro di A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti nella società globale, Milano, Feltrinelli, 1999. Sotto il profilo della riflessione sulla categoria di cittadinanza, il suo rapporto costitutivo con l’“alterità” è stato al centro dell’ambiziosa ricostruzione genealogica proposta da E.F. Isin, Being Political: Genealogies of Citizenship, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2002. Per seguire lo sviluppo del dibattito internazionale sul tema della cittadinanza, uno strumento essenziale è la rivista «Citizenship Studies»: si segnala inoltre il recente volume uscito in occasione del decennale della rivista, a cura di E.I. Isin, P. Nyers e B.S. Turner, Citizenship between Past and Present, London – New York, Routledge, 2008. Molto utile è anche l’Handbook of Citizenship Studies, a cura di E.I. Isin e B.S. Turner, London, Sage, 2003. Specificamente sul rapporto tra migrazioni e cittadinanza, da un punto di vista filosofico-politico, si possono vedere i seguenti volumi: Schwartz, W.F. (ed.), Justice in Immigration, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1995, Ph. Cole, Philosophies of Exclusion. Liberal Political Theory and Immigration, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2000 e S. Benhabib, The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens, Cambridge – New York, Cambridge University Press, 2004. Molto utili sono i due volumi curati da M.-C. Tschopp e P. Dasen, Mondialisation, migration et droits de l’homme: un nuveau paradigme pour la recherche et la citoyenneté / Globalization, migration, human rights: a new paradigm for research and citizenship, Bruxelles, Bruylant, 2007. Il rapporto tra cittadinanza e confini è stato studiato in modo innovativo negli ultimi due decenni, a partire dai lavori di Étienne Balibar, di cui si ricordano qui Les frontières de la démocratie, Paris, La Découverte, 1992 e Nous, citoyens d’Europe: les frontières, l’état, le peuple, Paris, La Découverte, 2001. Da questo punto di vista, il dibattito sulla cittadinanza e sul suo rapporto con le migrazioni, si è intrecciato con lo sviluppo dei cosiddetti border studies, un settore di ricerca interdisciplinare che è molto cresciuto a partire dall’inizio degli anni Novanta (si veda ad esempio il sito della “Association for Borderlands Studies” Di grande rilievo, in questo senso, sono stati una serie di studi sul confine tra Stati uniti e Messico, a partire dall’innovativo lavoro di G. Anzaldúa, Borderlands, the New Mestiza/La frontera, San Francisco, Spinsters/Aunt Lute, 1987. Tra i libri più interessanti in proposito si ricordano P. Vila, Borders, Reinforcing Borders: Social Categories, Metaphors, and Narrative Identities on the U.S.-Mexico Frontier, Austin, University of Texas Press, 2000 e N.P. De Genova, Working the Boundaries. Race, Space, and “Illegality” in Mexican Chicago, Durham, NC – London, Duke University Press, 2006. Un volume uscito di recente, che consente di fare il punto sullo sviluppo dei border studies, presentando al tempo stesso numerosi studi di caso, è P.K. Rajaram – C. Grundy-Warr (eds), Borderscapes. Hidden Geographies and Politics at Territory’s Edge, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2007. L’insieme di questi studi ha condotto a un’immagine più complessa del rapporto tra cittadinanza e immigrazione, ponendo in evidenza gli effetti di selezione (di “inclusione differenziale”) determinati dall’azione dei dispositivi di confine, che tendono sempre più a prolungarsi all’interno di spazi politici formalmente unificati e a proiettarsi al di là della linea che in teoria dovrebbe segnarne il margine. Tra i numerosi studi che negli ultimi anni hanno posto al centro dell’attenzione queste trasformazioni dell’istituto del confine in riferimento al caso europeo, si ricordano: D. Bigo – E. Guild, 2003, Le visa Schengen: expression d’une stratégie de «police» à distance, «Cultures & Conflits», numero speciale «Le mise à l’écart des ètrangers: la logique du Visa Schengen», 49-50 (2003), D. Bigo – E. Guild (eds), Controlling Frontiers: Free Movement Into and Within Europe, Aldershot, Ashgate, 2005, P. Cuttitta, F. Vassallo Paleologo (a c. di), Migrazioni, frontiere, diritti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006, AA.VV., Externalisation de l’asile et de l’immigration: Après Ceuta et Melilla, les stratégies de l’Union européenne, Paris, Gisti, 2006, P. Cuttitta, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, Milano, Mimesis, 2007, E. Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione allargata, Roma, Meltemi, 2007, Transit Migration Forschungsgruppe (ed), Turbulente Ränder. Neue Perspektiven auf Migration an den Grenzen Europas, Bielefeld, Transcript Verlag, 2007, Nouvelle Europe, nouvelles migrations: Frontières, intégration, mondialisation, Paris, Éditions du Félin, 2007. Un libro recente che denuncia efficacemente la formazione di un consenso trasversale agli schieramenti politici sulla necessità di irrigidire i controlli ai confini e tenta di proporre politiche alternative è quello di C. Rodier, Immigration, fantasmes et réalités: Pour une alternative à le fermeture des frontières, Paris, La Découverte, 2008. Due buoni siti per di controinformazione su quanto accade ai confini europei sono i seguenti: Fortress Europe e No border. Al tempo stesso, negli ultimi anni, una serie di studi hanno posto in evidenza come i migranti, lungi dall’essere semplici “vittime” dei dispositivi di confine, sfidino quotidianamente questi ultimi con le loro pratiche e con i loro movimenti: si vedano in questo senso, ad esempio, i contributi raccolti in «Multitudes», 19 (dicembre 2004), S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, ombre corte, 2006, D. Papadopoulos – N. Stephenson – V. Tsianos, Escape Routes. Control and Subversion in the 21st Century, London, Pluto Press, 2008 e L. Suárez-Navaz et al (eds.), Las luchas de los sin papeles y la extensión de la ciudadanía. Perspectivas críticas desde Europa y Estados Unidos, Madrid, Traficantes de Sueños, 2008.
Intervento del Prof. Sandro Mezzadra pubblicato su «La Revue Internationale des Livres & des Idées» (RiLi), n. 9 (janvier-février 2009)
Nel pacchetto sicurezza approvato dal Senato in questi giorni sono molte le norme che inaspriscono le condizioni di vita dei migranti dentro uno scenario di crisi epocale destinato a consolidarsi come qualcosa di paradigmatico, strutturale. Ma tra i tanti provvedimenti restrittivi, a sorpresa, il governo è stato battuto con voto sfavorevole su uno dei punti definiti più qualificanti dallo stesso Ministro dell’Interno Roberto Maroni, il prolungamento fino a 18 mesi dei tempi di detenzione all’interno dei centri di identificazione ed espulsione (come previsto dalla direttiva europea sui rimpatri). Il Viminale ha già annunciato l’intenzione di ripresentare la proposta all’interno della discussione del ddl 733 alla Camera. Si prefigura quindi la possibilità che il provvedimento torni al vaglio del Senato una volta modificato dall’altra aula del Parlamento. Può l’esecutivo rinunciare a questo strumenti di governo dei movimenti migratori dentro a questa fase di crisi caratterizzata dall’esubero, dall’espulsione dal mercato del lavoro di moltissimi migranti e quindi dalla presenza di un esercito sociale più che industriale di riserva precario, disponibile, pronto ad essere utilizzato nel quadro di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro? Ovvio che la questione del prolungamento ha anche e soprattutto un alto valore simbolico e retorico nella costruzione della figura del migrante come nemico, come pericolo. Non di meno, l’utilizzo del campo, è anche qualcosa che ha a che vedere con la necessità di flessibilizzare le possibilità di detenzione in funzione dell’utilizzo politico delle tanto acclamate espulsioni. La questione non è di facile soluzione, anzi, quello che abbiamo all’orizzonte è un quadro caratterizzato dall’impossibilità di definire conclusioni certe. Piuttosto, all’ordine del giorno, si pone il problema dell’inchiesta, della comprensione, dell’interrogativo permanente. Per questo vi proponiamo questo articolo (e due ricche bibliografie commentate) scritto dal Prof, Sandro Mezzadra, docente presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, autore del saggio "Diritto di fuga" e promotore della rete Uninomade.
testo:
18 mesi: è questo il tempo massimo di permanenza dei migranti nei centri di detenzione amministrativa fissato dalla direttiva europea sui rimpatri (giugno 2008). A tutti gli effetti la detenzione amministrativa è così riconosciuta come una pietra angolare delle politiche migratorie europee. Nel cuore del territorio della UE, ai suoi confini e al di là di essi i centri di detenzione, nelle molteplici forme giuridiche e organizzative in cui si presentano, si sono moltiplicati negli ultimi anni: è un’altra geografia dell’Europa quella che così prende forma, che si sovrappone a quella della «cittadinanza europea» senza coincidere con essa e mostrando piuttosto il carattere strutturalmente instabile di quest’ultima. I centri di detenzione sono uno dei dispositivi fondamentali attraverso cui i confini dell’Europa si insinuano all’interno del suo stesso territorio e si flettono fino a raggiungere quei paesi più o meno vicini (dal Marocco alla Libia all’Ucraina) in cui esistono centri di detenzione finanziati e in parte gestiti dall’Unione europea. È la stessa secca alternativa tra dentro e fuori, tra inclusione ed esclusione, a essere messa in discussione da questi istituti, che esibiscono così – lo ha brillantemente mostrato Federico Rahola in un saggio recente(1) – una continuità essenziale con la forma-campo. Attorno al tema del campo, della sua genealogia e della sua diffusione contemporanea, si è andata accumulando una gran mole di letteratura – storica, antropologica, filosofica – negli ultimi anni. La parola stessa non è oggi più legata a doppio filo all’esperienza dei “totalitarismi” novecenteschi, non richiama più immediatamente l’«universo concentrazionario» nazista: essa indica piuttosto un dispositivo (una forma, appunto) che ha conosciuto un gran numero di manifestazioni in particolare nella storia coloniale moderna, ma anche nei territori metropolitani europei. A tutti gli effetti, il campo rientra tra gli istituti caratteristici dello Stato moderno. E si presta anzi a offrire un punto di vista affatto specifico, e tuttavia rivelatore, a partire dal quale rileggere la storia di quest’ultimo. È questo il punto di partenza del libro di Marc Bernardot (Camps d’étrangers, Bellecombe-en-Bauges, Éditions du Croquant [Collection TERRA], 2008, pp. 223, 18, 50 euro), professore di sociologia alla Université du Havre, che si sofferma su un tipo particolare di campo – il «campo per stranieri», appunto – proponendone una definizione precisa: «un regroupement imposé et arbitraire de civils enfermés sans jugement en dehors du système pénitentiaire, visant à les isoler, les expulser, les rééduquer ou les faire travailler». Il libro è organizzato in tre parti, che ruotano attorno ai tre assi della sociostoria di una parola, di una tecnica e delle popolazioni internate. Ed è il caso di osservare preliminarmente che nell’arco storico analizzato da Bernardot, soprattutto in riferimento al caso francese, è lo stesso significato del termine “stranieri” ad assumere significati diversi, a cui corrispondono mutamenti significativi nelle funzioni e nella natura dei campi. Con l’inizio della prima guerra mondiale, il campo si presenta sulla scena come spazio di internamento per i cittadini dei Paesi nemici. Ma la fine della guerra non coincide con la fine dei campi: «un ensemble de lieux potentiels d’internement», scrive piuttosto Bernardot, «sera dorénavant disponible de même qu’un corpus de textes et de règles». A popolare questi luoghi saranno in particolare profughi e soggetti coloniali presenti nello spazio metropolitano, due categorie di soggetti che occupano una posizione del tutto anomala rispetto all’opposizione secca tra cittadini e stranieri, di cui mostrano anzi le incrinature e l’incipiente crisi. I campi per gli stranieri giocano un ruolo essenziale precisamente nel governo e nel controllo di questa crisi: la sociologia storica dello Stato proposta da Bernardot attraverso lo studio di questi campi finisce così per offrire, ed è forse questa la ragione di maggior fascino del libro, uno sguardo liminale, una ricostruzione della vicenda dello Stato moderno a partire dal suo confine interno. Posto a presidio di questo confine, il campo per stranieri è del resto tutt’altro che uno spazio “marginale”: nella prospettiva di Bernardot, che integra sociologia storica dello Stato, sociologia delle migrazioni e sociologia urbana, esso costituisce piuttosto una lente che permette di analizzare le grandi cesure che segnano sia le politiche migratorie sia l’organizzazione degli spazi metropolitani.
Il dispositivo del campo
Il campo analizzato da Bernardot ha dunque uno statuto per definizione ambiguo, costituendosi nel punto di incrocio tra una logica essenzialmente repressiva e una logica umanitaria, di protezione. Se da una parte sorge per separare dallo spazio della cittadinanza gruppi di popolazione presentati come pericolosi, dall’altra esso è lo spazio in cui lo Stato si fa carico della presenza sul suo territorio di popolazioni bisognose di assistenza. Mise à l’ecart e messa sotto tutela si intrecciano, fino a confondersi, nella definizione del «campo per stranieri». Non solo: il campo per stranieri pone in discussione ogni immagine lineare, evolutiva, della storia dello Stato moderno. Disciplina, biopolitica e controllo, tre termini che secondo un diffuso senso comune “foucaultiano” si presterebbero a indicare tre fasi successive nello sviluppo dei moderni regimi di potere, definiscono qui modalità e logiche di funzionamento dell’istituto contemporaneamente presenti. Il campo per stranieri combina infatti processi di organizzazione disciplinare – su un modello essenzialmente militare – con minuziose procedure di presa in carico della “vita” degli internati, la cui stessa soggettività appare sospesa tra i due poli del nemico pubblico e della vittima potenziale. Considerati lungo l’intero arco della loro storia novecentesca, del resto, i campi esibiscono caratteri di aleatorietà nella gestione dei «flussi» di popolazioni straniere che anticipano alcuni elementi costitutivi della società di controllo.
Non cittadini nello spazio politico nazionale
Sotto il profilo storiografico, uno degli elementi maggiormente originali del lavoro di Bernardot consiste nel mostrare la funzione essenziale dei campi nella gestione della presenza nel territorio metropolitano dei “sudditi coloniali”, come lavoratori o come soldati, a partire dalla prima guerra mondiale. L’elemento di segregazione spaziale, di separazione di questi soggetti dai cittadini metropolitani, consente da questo punto di vista di ricostruire un continuum di misure di sorveglianza e controllo che ha nel campo la propria matrice ma che si distende nei territori circostanti, assegnando a spazi abitativi segregati i lavoratori coloniali nei bacini industriali e prefigurando la specificità francese dei «foyers de travailleurs migrants». Ma al tempo stesso il campo, Bernardot lo mostra in modo particolarmente efficace a proposito del caso di Larzac negli anni della guerra di Algeria, si presta a essere analizzato come un vero e proprio «spazio politico», in cui la mobilitazione degli internati sovverte continuamente le linee di divisione attorno a cui si organizza il controllo delle autorità e anticipa comportamenti e rivendicazioni che sarebbero stati al centro delle lotte urbane e industriali dei migranti negli anni Sessanta e Settanta. Si tratta certo, al di là del caso specifico di Larzac e del contesto della guerra di Algeria, di mobilitazioni che incontrano difficoltà enormi, che scontano la “debolezza” dei soggetti internati e i problemi derivanti dal fatto che «les mobilisations de non-citoyens sont structurellement impensables dans l’espace politique national». E tuttavia i campi non sono mai stati, e non sono oggi, spazi pacificati: mi pare un’ulteriore indicazione preziosa di Bernardot, che ci mette implicitamente in guardia dal considerare come mere “vittime” i soggetti che li abitano, secondo una retorica condivisa sia da molte organizzazioni umanitarie che partecipano alla gestione dei campi sia da una parte degli attivisti che si battono contro di essi.
Plasticità della forma-campo e metamorfosi della questione sociale
Nel suo complesso, proprio grazie alla prospettiva di lungo periodo assunta dall’autore, l’analisi di Marc Bernardot presenta il campo per stranieri come «une hypostase d’institution sociale en recomposition permanente en fonction des circonstances sans se fixer dans une forme définitive». È proprio l’insistenza sul carattere proteiforme e flessibile del campo l’aspetto più importante del libro. Internamento e segregazione degli «stranieri» ne costituiscono indubbiamente caratteri strutturali, con il carico di violenza che ciò comporta. Ma per comprendere – e per criticare efficacemente – le funzioni svolte dal campo per stranieri non è sufficiente soffermarsi su questi aspetti. È piuttosto lo statuto ambiguo dell’istituto, su cui ci siamo in precedenza soffermati, a renderlo straordinariamente flessibile e adattabile al mutare delle circostanze storiche (e dunque non riducibile a un generale e generico «paradigma biopolitico della modernità», per riprendere la tesi di Giorgio Agamben). Legato a doppio filo alle politiche migratorie, il campo ne asseconda gli imperativi di controllo, selezione e protezione, ponendosi come una sorta di garanzia in ultima istanza dell’equilibrio – strutturalmente instabile – tra di essi. Esemplare, in questo senso, è il rapporto ambivalente che il campo intrattiene con il lavoro. «Pour les migrants en général», scrive Bernardot, «et plus particulièrement pour les populations en provenance des (ex) colonies, le travail constitue à la fois une justification centrale de la présence sur le sol du pays d’accueil et une manière de le rendre invisible»: il campo interviene precisamente, con la smobilitazione degli algerini nella regione di Parigi alla fine della prima guerra mondiale così come dopo i grandi scioperi degli anni Settanta, nel momento in cui la perdita del lavoro rende la presenza dei lavoratori coloniali o dei migranti al tempo stesso illegittima e visibile. Può costituire così uno spazio di contenimento di una riserva di forza lavoro da impiegare in modo flessibile (in formazione permanente attraverso l’organizzazione del lavoro all’interno del campo stesso) così come l’anticamera dell’espulsione: e si presta dunque a funzionare in modo particolarmente efficace come camera di decompressione delle tensioni che si accumulano su un mercato del lavoro quale quello contemporaneo, riorganizzato all’insegna di una domanda di lavoro just in time. Nel contesto contemporaneo, caratterizzato dalla «crisi dell’asilo», dalla «militarizzazione della questione sociale» e dall’«emergenza» dell’immigrazione irregolare, il libro di Bernardot richiama così la nostra attenzione sulla diffusione pervasiva (sulla «plasticità» e sulla «miniaturizzazione») della forma-campo. La stessa tendenza, evidente in tutta Europa, all’allungamento dei tempi di detenzione e all’aumento delle «capacités d’enfermement», più che delineare un unico modello di detenzione in funzione della chiusura ermetica dello spazio europeo ai profughi e ai migranti, sembra allora incrementare i margini di arbitrarietà (e di plasticità) nella gestione del «campo per stranieri». E una volta di più l’analisi dei campi, e la lotta contro di essi, non possono prescindere da una comprensione dei modi molteplici in cui essi si inseriscono all’interno di un processo di più generale trasformazione della geografia sociale e produttiva in Francia come nel resto d’Europa. Già lo si accennava a proposito della riorganizzazione del mercato del lavoro all’insegna della “flessibilità”: i migranti che abitano lo spazio dei campi vivono ed esprimono – in forme drammatiche – una condizione liminale, sospesa tra dentro e fuori, tra inclusione ed esclusione, che il capitalismo contemporaneo tende a riprodurre per una pluralità di soggetti, mettendo radicalmente in discussione l’immagine (e la realtà materiale) di una cittadinanza costruita sulla piena integrazione all’interno di quello che Etienne Balibar ha definito lo «Stato sociale nazionale»(2). Pur collocati fisicamente ai margini della nostra esperienza quotidiana, i «campi per stranieri» si confermano così luoghi privilegiati a partire dai quali leggere criticamente i conflitti e le tensioni che vivono al cuore del nostro presente.
di Sandro Mezzadra
Note:
(1) - La forme-camp. Pour une généalogie des lieux de transit et d’internement contemporaine, in «Cultures & Conflits», n° 68, hiver 2007.
(2) - É. Balibar, Droit de cité. Culture et politique en démocratie, l’Aube, La Tour d’Aigue 1998. vedi anche: Pacchetto sicurezza - Il controllo sulla vita. La vera emergenza è il razzismo
Bibliografia commentata sui campi
Un ruolo molto importante nell’avvio di una nuova stagione di studi sulla “forma campo” è stato svolto dalla pubblicazione del libro di G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, seguito tre anni dopo da Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Le tesi di Agamben, secondo cui il campo costituisce il paradigma politico della modernità, hanno esercitato una grande influenza sia nel dibattito sul post-11 settembre sia all’interno degli studi sulle migrazioni e in particolare sui rifugiati, soprattutto in ambito anglosassone: si vedano ad esempio S. Perera, What is a Camp?, in «Borderlands e-journal», 1, 2002 e P. Nyers, Rethinking Refugees. Beyond States of Emergency, New York – London, Routledge, 2006. È il caso poi di segnalare almeno due opere generali dedicate alla storia dei campi: A. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Torino, Bollati-Boringhieri, 1997 e J. Kotek, P. Rigoulot P., Le Siècle des camps. Détention, concentration, extermination, cent ans de mal absolu, Paris, J.-CLattès, 2000, a cui si possono utilmente aggiungere la prima parte del libro di F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Verona, Ombre corte, 2003, che sottolinea in particolare l’origine coloniale del campo di concentramento e il recentissimo volume di J. Brunati, De l’esclavage des Noirs à celui des camps nazis, Paris, L’Harmattan, 2008. Un lavoro molto importante sul sistema concentrazionario nazista, ampiamente ripreso nel dibattito successivo, è quello di W. Sofski, Die Ordnung des Terrors. Das Konzentrationslager, Frankfurt a.M., Fischer, 1993, mentre è appena uscito l’ottavo volume dell’opera curata da Wolgang Benz e Barbara Distel, Der Ort des Terrors. Geschichte der Nazionalsozialistischen Konzentrationslager, München, Beck, 2008. Per quel che riguarda i centri di detenzione per migranti in Europa, si possono vedere, all’interno di una letteratura molto ampia, i seguenti volumi, ricchi di riferimenti al dibattito sulla «forma campo»: M.-C. Caloz-Tschopp, Les Etrangers aux frontières de l’Europe et le spectre des camps, Paris, La Dispute, 2004, «Cultures & Conflits», n° 57, printemps 2005 (numero monografico dedicato a L’Europe des camps), «Conflitti globali», 4, 2006 (numero monografico dedicato a Internamenti: CPT e altri campi), H. Courau, Ethnologie de la Forme-camp de Sangatte: De l’exception à la régulation, Paris, Archives contemporaines Editions, 2007, O. Le Cour Grandmaison – G. Luhilier – J. Valluy (eds), Le retour des camps? Sangatte, Lampedusa, Guantanamo…, Paris, Editions Autrement, 2007, F. Sossi, Autobiografie negate. Immigrati nei Lager del presente, Roma, Manifestolibri, 2002, M. Rovelli, Lager italiani, Milano, Rizzoli, 2006 e T. Pieper, Die Gegenwart der Lager: Zur Mikrophysik der Herrschaft in der deutschen Flüchtlingspolitik, Münster, Westfälisches Dampfboot, 2008, M. Agier, Gérer les indésirables. Des camps de réfugiés au gouvernement humanitaire, Paris, Flammarion, 2008. Ricco di riferimenti alla funzione dei centri di detenzione è infine il volume curato da N. De Genova e N. Peutz, The Deportation Regime: Sovereignty, Space, and the Freedom of Movement, Durham, NC, Duke University Press, 2009.
Bibliografia commentata su frontiere, cittadinanza e migrazioni
A lungo, nel corso del secondo dopoguerra, è prevalsa nel dibattito teorico occidentale un’immagine della cittadinanza che ne sottolineava i caratteri di inclusione e di integrazione, secondo la lezione del grande sociologo britannico T.H. Marshall (Cittadinanza e classe sociale, ed. or. 1950, ed. it. a c. di S. Mezzadra, Roma – Bari, Laterza, 2002). È a partire dagli anni Ottanta, con il manifestarsi della crisi dello Stato sociale e con le nuove sfide portate dalle migrazioni transnazionali, che la funzione esclusiva della cittadinanza è stata riscoperta ed è divenuta centrale all’interno delle scienze sociali, giuridiche e politiche. Un libro di notevole importanza, da questo punto di vista, è ad esempio quello di R. Brubaker, Citizenship and Nationhood in France and Germany, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1992. Il rapporto tra cittadinanza e migrazioni è stato conseguentemente analizzato da molti autori ponendo in evidenza l’esclusione dei migranti dallo spazio della cittadinanza: emblematico, in questo senso, è il libro di A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti nella società globale, Milano, Feltrinelli, 1999. Sotto il profilo della riflessione sulla categoria di cittadinanza, il suo rapporto costitutivo con l’“alterità” è stato al centro dell’ambiziosa ricostruzione genealogica proposta da E.F. Isin, Being Political: Genealogies of Citizenship, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2002. Per seguire lo sviluppo del dibattito internazionale sul tema della cittadinanza, uno strumento essenziale è la rivista «Citizenship Studies»: si segnala inoltre il recente volume uscito in occasione del decennale della rivista, a cura di E.I. Isin, P. Nyers e B.S. Turner, Citizenship between Past and Present, London – New York, Routledge, 2008. Molto utile è anche l’Handbook of Citizenship Studies, a cura di E.I. Isin e B.S. Turner, London, Sage, 2003. Specificamente sul rapporto tra migrazioni e cittadinanza, da un punto di vista filosofico-politico, si possono vedere i seguenti volumi: Schwartz, W.F. (ed.), Justice in Immigration, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1995, Ph. Cole, Philosophies of Exclusion. Liberal Political Theory and Immigration, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2000 e S. Benhabib, The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens, Cambridge – New York, Cambridge University Press, 2004. Molto utili sono i due volumi curati da M.-C. Tschopp e P. Dasen, Mondialisation, migration et droits de l’homme: un nuveau paradigme pour la recherche et la citoyenneté / Globalization, migration, human rights: a new paradigm for research and citizenship, Bruxelles, Bruylant, 2007. Il rapporto tra cittadinanza e confini è stato studiato in modo innovativo negli ultimi due decenni, a partire dai lavori di Étienne Balibar, di cui si ricordano qui Les frontières de la démocratie, Paris, La Découverte, 1992 e Nous, citoyens d’Europe: les frontières, l’état, le peuple, Paris, La Découverte, 2001. Da questo punto di vista, il dibattito sulla cittadinanza e sul suo rapporto con le migrazioni, si è intrecciato con lo sviluppo dei cosiddetti border studies, un settore di ricerca interdisciplinare che è molto cresciuto a partire dall’inizio degli anni Novanta (si veda ad esempio il sito della “Association for Borderlands Studies” Di grande rilievo, in questo senso, sono stati una serie di studi sul confine tra Stati uniti e Messico, a partire dall’innovativo lavoro di G. Anzaldúa, Borderlands, the New Mestiza/La frontera, San Francisco, Spinsters/Aunt Lute, 1987. Tra i libri più interessanti in proposito si ricordano P. Vila, Borders, Reinforcing Borders: Social Categories, Metaphors, and Narrative Identities on the U.S.-Mexico Frontier, Austin, University of Texas Press, 2000 e N.P. De Genova, Working the Boundaries. Race, Space, and “Illegality” in Mexican Chicago, Durham, NC – London, Duke University Press, 2006. Un volume uscito di recente, che consente di fare il punto sullo sviluppo dei border studies, presentando al tempo stesso numerosi studi di caso, è P.K. Rajaram – C. Grundy-Warr (eds), Borderscapes. Hidden Geographies and Politics at Territory’s Edge, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2007. L’insieme di questi studi ha condotto a un’immagine più complessa del rapporto tra cittadinanza e immigrazione, ponendo in evidenza gli effetti di selezione (di “inclusione differenziale”) determinati dall’azione dei dispositivi di confine, che tendono sempre più a prolungarsi all’interno di spazi politici formalmente unificati e a proiettarsi al di là della linea che in teoria dovrebbe segnarne il margine. Tra i numerosi studi che negli ultimi anni hanno posto al centro dell’attenzione queste trasformazioni dell’istituto del confine in riferimento al caso europeo, si ricordano: D. Bigo – E. Guild, 2003, Le visa Schengen: expression d’une stratégie de «police» à distance, «Cultures & Conflits», numero speciale «Le mise à l’écart des ètrangers: la logique du Visa Schengen», 49-50 (2003), D. Bigo – E. Guild (eds), Controlling Frontiers: Free Movement Into and Within Europe, Aldershot, Ashgate, 2005, P. Cuttitta, F. Vassallo Paleologo (a c. di), Migrazioni, frontiere, diritti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006, AA.VV., Externalisation de l’asile et de l’immigration: Après Ceuta et Melilla, les stratégies de l’Union européenne, Paris, Gisti, 2006, P. Cuttitta, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, Milano, Mimesis, 2007, E. Rigo, Europa di confine. Trasformazioni della cittadinanza nell’Unione allargata, Roma, Meltemi, 2007, Transit Migration Forschungsgruppe (ed), Turbulente Ränder. Neue Perspektiven auf Migration an den Grenzen Europas, Bielefeld, Transcript Verlag, 2007, Nouvelle Europe, nouvelles migrations: Frontières, intégration, mondialisation, Paris, Éditions du Félin, 2007. Un libro recente che denuncia efficacemente la formazione di un consenso trasversale agli schieramenti politici sulla necessità di irrigidire i controlli ai confini e tenta di proporre politiche alternative è quello di C. Rodier, Immigration, fantasmes et réalités: Pour une alternative à le fermeture des frontières, Paris, La Découverte, 2008. Due buoni siti per di controinformazione su quanto accade ai confini europei sono i seguenti: Fortress Europe e No border. Al tempo stesso, negli ultimi anni, una serie di studi hanno posto in evidenza come i migranti, lungi dall’essere semplici “vittime” dei dispositivi di confine, sfidino quotidianamente questi ultimi con le loro pratiche e con i loro movimenti: si vedano in questo senso, ad esempio, i contributi raccolti in «Multitudes», 19 (dicembre 2004), S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, ombre corte, 2006, D. Papadopoulos – N. Stephenson – V. Tsianos, Escape Routes. Control and Subversion in the 21st Century, London, Pluto Press, 2008 e L. Suárez-Navaz et al (eds.), Las luchas de los sin papeles y la extensión de la ciudadanía. Perspectivas críticas desde Europa y Estados Unidos, Madrid, Traficantes de Sueños, 2008.
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