10 nov 2009

università

Andrea Capocci. Penso che l'università dovrà diventare un centro erogatore di conoscenza che dia alle persone autonomia nel ciclo produttivo e una formazione permanente gratuita che sia un diritto e non un dovere per il lavoratore. Da quando l'Italia è diventata un paese postindustriale, scuola e università sono state inserite nelle reti dell'economia della conoscenza. Il problema è che questo è stato fatto al di sotto della soglia che permette l'autonomia. Fatto ancora più grave è che l'università non si è accorta di essere passata da un ruolo condiviso ad uno al servizio di un mondo produttivo che non vuole innovazione. Riacquisterà legittimazione sociale solo se smette di essere neutrale rispetto a questo processo. I saperi non devono essere trasmessi assecondando il ciclo economico al ribasso in cui l'Italia si trova oggi. I saperi devono essere usati come strumenti di opposizione e di garanzia sociale per il reddito. Se si esce dall'università sapendo usare solo un software della Microsoft, diventi precario nel giro di un anno perché sai fare solo quello. Chi invece ha competenze a largo spettro, da un'azienda se ne va perché sa riconvertirsi ed è meno ricattabile.


ilmanifesto.it

6 nov 2009

l'antimafia come passerella


Premio Borsellino, analisi n.2: Gasparri si becca la querela
Oggi vi propongo la seconda parte dell'analisi del Premio Borsellino proposta da Benny Calasanzio Borsellino, seguito dell'articolo di ieri.

A Salvatore Borsellino va tutto il mio sostegno.

di: Benny Calasanzio Borsellino

Quello raffigurato accanto è Maurizio Gasparri, presidente al Senato del gruppo Pdl. No, non è Neri Marcorè e la foto non è stata ritoccata. E' proprio così, anzi, pare che sia venuto abbastanza bene. Quest'uomo, o quello che ne resta, ha avuto l'ardire, lo scorso 2 novembre di affermare, con l'educazione che contraddistingue galantuomini come lui, ad una ragazza, Lea Del Greco, che gentilmente gli chiedeva di accettare le dieci domande che gli poneva il Popolo delle Agende Rosse, quanto segue: "Salvatore Borsellino era disistimato dal fratello, lei non lo sa perchè è giovane". Un attimo prima, la sua guardia del corpo, dipendente del sottoscritto e di voi altri che leggete, aveva democraticamente accartocciato il volantino. Una dichiarazione vergognosa e infamante, che solo da bocche di rosa quali quella di Gasparri poteva uscire. Salvatore Borsellino, con tranquillità e forza d'animo invidiabile, ha raccolto articoli e video e ha dato mandato al suo legale, Fabio Repici, di sporgere una querela nei confronti di Marcorè, o di Gasparri, si insomma, contro quello vero. Il fratello di Borsellino, che a quanto dicono i parenti aveva con Paolo un rapporto di stima e di affetto straordinario, si è augurato che Gasparri non si avvalga della immunità parlamentare e risponda in aula della blasfemia detta in nome di chi oggi non c'è più e non può mandarlo a zappare i fertili terreni abruzzesi. Non mi risulta che gli organizzatori del Premio Borsellino, travolti emotivamente dall'aggressione a Nodari (che ha dichiarato "l'educazione consiste anche nel capire da che parte si sta quando una persona viene ferita in nome di Paolo Borsellino e quando invece una persona cerca di ricordare l'immagine, le idee e soprattutto il sacrificio di Paolo Borsellino". Ma non avevano urlato "servo dei fascisti"? Che c'entra Borsellino?), abbiano preso le distanze da quanto detto dal diversamente bello senatore Pdl ed espresso solidarietà a Salvatore.

Chi invece ha reagito subito è stata Libera Pescara, che ha chiesto che venga rimosso ogni riferimento e ogni logo dell'associazione dall'ambito del premio: "prendiamo le distanze dall’atteggiamento di chi continua a considerare la lotta alle mafie un pretesto per dare vita a passerelle di personaggi la cui storia personale ed istituzionale non presenta nessun elemento di sostegno alla lotta per la legalità e la trasparenza". E, in ultimo, la clamorosa rinuncia di Gioacchino Genchi a presenziare ad un incontro nell'ambito del premio: "La mia coerenza di uomo e di servitore dello Stato, il rigore che ho sempre imposto a tutte le mie scelte di vita e professionali, oltre alla determinazione con cui ho sempre rifiutato compromessi con chi fa dileggio della Verità, mi impongono di non partecipare ad un evento al quale ha preso parte uno come Gasparri ed a cui avrebbe dovuto presenziare – come ho pure appreso solo ieri – finanche Clemente Mastella". Non c'è che dire: bilancio di tutto rispetto per il premio di quest'anno.

Postato in: Antimafia



www.soniaalfano.it

4 nov 2009

a cosa serve la violenza nella società?


Le vittime delle forze dell'ordine dal 1960 in ItaliaCondividi
da Osservatorio Sulla Repressione

Qualcuno porta sulla coscienza questi morti, qualcuno che indossava -o indossa ancora- una divisa. Quelle che noi chiamiamo 'forze dell'ordine'

Federico Aldrovandi
Giovanni Ardizzone
Aldo Bianzino
Rodolfo Boschi
Pietro Bruno
Angelo Campanella
Andrea Cangitano
Mario Castellano
Giuseppe Casu
Domenico Centola
Angelo Cerrai
Fabrizio Ceruso
Carmine Citro
Gennaro Costantino
Domenico Criscuolo
Stefano Cucchi
Giancarlo Del Padrone
Alberto Di Cori
Lauro Farioli
Massimiliano Ferretti
Roberto Franceschi
Ovidio Franchi
Vittorio Giua
Carlo Giuliani
Pietro Maria Greco
Michele Guaresi
Vincenzo Illuminati
Carmelo Jaconis
Rosa La Barbera
Bruno Labate
Marcello Lonzi
Francesco Lorusso
Giuseppe Malleo
Mario Marotta
Giorgiana Masi
Luigi Mastrogiacomo
Tonino Miccichè
Maria Minci
Vincenzo Napoli
Salvatore Novembre
Cesare Pardini
Giuseppe Pinelli
Riccardo Rasman
Laura Rendina
Teresa Ricciardi
Luca Rossi
Saverio Saltarelli
Mario Salvi
Mario Savoldi
Giuseppe Scibilia
Franco Serantini
Marino Serri
Angelo Sigona
Giuseppe Tavecchio
Afro Tondelli
Maurizio Tortorici
Claudio Varalli
Francesco Vella
Giannino Zibecchi
e tutti i detenuti uccisi dallo 'Stato democratico' e rimasti colpevolmente ignoti.

A loro va il nostro eterno pensiero e alle rispettive famiglie l'abbraccio più solidale e sincero.


3 nov 2009

ADESSO BASTA

«Le prime botte le prendi all'ufficio matricola e poi continua così.
Ti picchiano con manganelli o a mani nude, quando entri in carcere capisci che non vali niente, che non hai diritti. È come una giungla. Devi subito accettare le regole altrimenti sei morto, non intendo fisicamente, anche se può capitare». S.F. è un trentacinquenne, ex dipendente di una nota azienda italiana (ora aspetta il reintegro), è entrato a nell'istituto di pena di Poggioreale a Napoli per motivi analoghi a quelli di Stefano Cucchi, lo scorso maggio, e ne è uscito dopo una settimana sulle sue gambe. Ma poteva anche non andare così.


Chi ti ha picchiato?

Le guardie carcerarie, chiamati assistenti, ma credetemi sono delle belve. Qualcuno più umano c'è ma nel nostro padiglione, il Firenze, che insieme all'Avellino raccoglie chi arriva per la prima volta in carcere, sono i peggiori.

Perché?

Perché in questi settori non ci sono i detenuti di lungo corso o i camorristi, ma persone che non sono mai state in galera. E le guardie si sfogano, senza paura, perché dicono che noi siamo pesc' e cannuccia', insomma gente che non conta niente. Non mischiano le matricole con i recidivi. Lo capisci subito appena entri, e se non lo capisci te lo dicono gli altri al passeggio: «Qui si pigliano 'e mazzat'».

Quando te le hanno suonate per la prima volta?

Al reparto matricole. Mi avevano preso le impronte digitali, poi uno mi ha fissato negli occhi e mi ha dato uno schiaffo: «Che guardi a fare?», mi ha detto. Allora ho tenuto lo sguardo basso tutto il tempo, mentre restavo in mutande o facevo le flessioni. Sono stato ad aspettare credo per almeno due ore con gli altri nuovi detenuti, ogni minuto sentivi il rumore di un "pacchero", o le urla di qualcuno.

Una volta in cella è andata meglio?

Almeno parli con qualcuno che ti dà indicazioni, ti spiega chi è il più nervoso tra i secondini, ti dicono di non farti trovare in pantaloncini quando c'è tizio, di non chiedere nulla a caio. Ma soprattutto ti mettono in guardia per la conta, che si fa mattina, pomeriggio e sera. Devi sempre tenere le mani dietro la schiena e lo sguardo basso, se alzi la testa le prendi di santa ragione. Non lo fanno subito, aspettano la notte, entrano e ti bastonano nella branda.

A te è capitato?

No, però dopo un giorno che stavo lì, eravamo otto in una cella, due miei compagni giocavano con dei cartoncini che avevano disegnato a mano, perché è vietato avere le carte. Un secondino li prese e li portò via, tornarono con la schiena tumefatta e le mani gonfie. Ci dissero che avevano preso manganellate ovunque, ma che gli avevano messo le coperte sui polsi per non lasciare segni.

Poi cosa è successo?

La sera arrivò una guardia e ci disse che il secondino dalla torretta aveva visto qualcuno nella stanza affacciato alla finestra. Presero G. e lo portarono via. Poi vennero a prenderci tutti e ci dissero: «Non vuole confessare, ora v'accirimm', sti figli 're cas' popolari». Ci condussero nei sotterranei, in quello che i detenuti chiamano reparto Dx, non lo so perché ma ha questo nome. Qui erano in quattro, tutti incappucciati, che iniziarono a prenderci a manganellate, schiaffi e calci.

Cosa pensavi in quel momento?

Che non la smettevano più. Avevo paura che non sarei uscito più perché quella punizione sarebbe stata annotata da qualche parte. In realtà loro non dicono niente a nessuno, ti picchiano e basta.

È una cosa normale?

Io sono stato lì una settimana e mi è capitato quattro volte. Ma ho capito che era un'abitudine quando nella cella di fronte alla nostra c'era una persona stesa nel letto che non partecipava alla conta. Era cardiopatico e non stava bene. Invece di portarlo al pronto soccorso per tre giorni lo hanno colpito nella brandina, lui respirava a fatica, noi non potevamo fare niente. Una sera è stata chiamata una dottoressa, erano le 11, non lo dimenticherò più. Lei disse: «Sta bene, sta fingendo». La mattina dopo era morto. Così hanno cambiato alcuni secondini e abbiamo avuto un attimo di respiro. Poi sono uscito.

Secondo la tua esperienza Stefano Cucchi può essere morto per le botte prese?

Assolutamente sì. Io sono alto un metro e 90 e peso 98 chili, se un ragazzo magro e più fragile avesse preso le bastonate che mi hanno dato, minimo si sarebbe spezzato le costole. Per questo quando ci facevano scendere tutti insieme i più grossi cercavano di coprire quelli più piccoli.
Perché non hai denunciato quello che ti è accaduto?

Secondo voi avrei trovato qualcuno disposto a testimoniare con me? E se anche l'avessi trovato è la parola di ex-detenuti contro lo stato. Nessuno parlerà mai.


fonte: Francesca Pilla da il manifesto

2 nov 2009

























DIAMO CONSIGLI

Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto...". Parole dal carcere di Castrogno a Teramo, parole registrate all'interno di uno degli uffici degli agenti di polizia penitenziaria. Frasi spaventose impresse in un nastro. Ora questo audio è nelle mani della Procura della Repubblica di Teramo che ha aperto un'inchiesta sulla vicenda. Sono parole che raccontano di un "pestaggio" ai danni di un detenuto, quasi come fosse la "prassi", un episodio che rientra nella "normalità" della gestione del penitenziario. Un concitato dialogo tra un superiore e un agente che svelerebbe un gravissimo retroscena all'interno di un carcere già alle prese con carenze di organico e difficoltà strutturali. Il nastro è stato recapitato al giornale locale La Città di Teramo, ed è scoppiata la bufera. Il plico era accompagnato da una lettera anonima. In merito alla vicenda la deputata Radicale-Pd Rita Bernardini, membro della commissione Giustizia, ha presentato un'interrogazione al ministro Alfano. La deputata chiede al ministro Alfano se ritenga di dover accertare "se questi corrispondano al vero e di promuovere un'indagine nel carcere di Castrogno di Teramo per verificare le responsabilità non solo del pestaggio di cui si parla nella registrazione, ma anche se la brutalità dei maltrattamenti e delle percosse sia prassi usata dalla Polizia Penitenziaria nell'istituto". Proprio questa mattina la Bernardini ed il segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, faranno visita al carcere. Intanto la Uil chiede chiarezza e verità anche a tutela della professionalità e dell'impegno quotidiano della polizia penitenziaria di Teramo. "Noi possiamo solo affermare - sottolinea la segreteria regionale - che la violenza gratuita non appartiene alla cultura dei poliziotti penitenziari in servizio a Teramo che, invece, pur tra mille difficoltà hanno più volte operato con senso del dovere, abnegazione e professionalità. Ciò non toglie che la verità vada ricercata con determinazione e in tempi brevi. Noi vogliamo contribuire a questa ricerca impedendo, nel contempo, che si celebrino processi sommari, intempestivi e impropri".
Anche il notevole sovraffollamento è causa di forti tensioni. L'istituto potrebbe contenere al massimo 250 detenuti, ne ospita circa 400. Un solo agente per sezione deve sorvegliare, nei turni notturni, anche più di 100 detenuti; un flusso di traduzioni che determina l'esaurimento di tutte le risorse disponibili.

ASCOLTA L'AUDIO:
http://tv.repubblica.it/copertina/il-detenuto-si-massacra-da-solo-non-davanti-a-tutti/38587?video