25 dic 2009

NATALE

E' nato oggi gesù ilsalvatore, pesa 3kg e maria, la madre, per metterlo al mondo è stata costretta a perdere la sua storica verginità, che l'aveva portata agli onori della cronaca locale.
Denunciato l'aggressore, un certo gabriele, rappresentante di macchine per aerosol, reo di averla fecondata con una soluzione da inalare, contenente seme divino allo stato gassoso.
Fonte ANS(i)A

22 dic 2009

Alberto Asor Rosa e Ezio Mauro

EDITORIALE | di Alberto Asor Rosa
L'ETERNA BICAMERALE
Quando qualche tempo fa scrissi e pubblicai su queste colonne un articolo intitolato Il golpe bianco (5 dicembre), non mi sarei aspettato che di lì a qualche giorno (10 dicembre) il Cavaliere sarebbe volato in soccorso delle mie tesi con le sue clamorose esternazioni al Congresso del Ppe, che sembravano fatte apposta per convalidarle e renderle definitive: ripeto, definitive.
Siamo usciti allora dal clima provvisorio di (presunta) isteria e di (patologica) rabbia: i tre elementi fondatori della strategia berlusconiana, - la denegazione del prestigio, dell'autorevolezza e della funzione di garanzia delle massime cariche dello Stato (Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale), lo scardinamento dell'autonomia del potere giudiziario e la revisione del dettato costituzionale in vista di un proprio illimitato e sconfinato nel tempo potere personale, - venivano ormai sotto tutti gli occhi di tutti, il «golpe bianco» prendeva la sua forma finale, per giunta di fronte ad una platea europea, cosa che anch'essa finora non era mai avvenuta (il fatto che non ci siano state reazioni visibili costituisce di per sé un avallo importante alla strategia in quella sede chiaramente delineata).
Questo è avvenuto negli ultimi quindici giorni in Italia e su questo occorre tornare a riflettere, riflettere, riflettere. Insomma, il ragionamento è davvero elementare: se in Italia c'è «lo stato di eccezione» (E. Mauro, La Repubblica, 11 dicembre), la strada da battere è una; se non c'è, è un'altra. Questo è il punto: se sia in atto oppure no in Italia un processo strisciante di natura eversiva, che scende dall'alto, risponde a un disegno preciso (non sussultorio, non puramente difensivo) e si avvale per ora, con estrema durezza, di tutti gli strumenti istituzionali attualmente disponibili. E' ovvio che, in base alle risposte, se ne dipanino due possibili (e ampiamente contrapposte) risposte politiche. Le risposte politiche, e le conseguenti iniziative, invece sembrano arrivare senza che il punto nella sua essenza sia minimamente affrontato. Il massimo che si ottiene è che vengano avvistate, - e qualche volta persino denunciate, - le singole eccezioni alla regola. Ma non si vede, o non si vuole vedere, la trama che le unisce organicamente l'una all'altra, cioè non si vede, per tornare a noi, lo «stato d'eccezione». E questa rimozione (in molti casi voluta) mi sembra di per sé una terribile debolezza.
Lo strillo di Pier Ferdinando Casini dopo le ultime esternazioni, - «se vuole trasformare la repubblica in una monarchia, faremo fronte comune, e ci saranno delle sorprese», - forse dettato da emotività (ma vivaddio, in casi del genere), poteva essere l'inizio di un discorso, anche dalle ridotte ricadute pratiche sul momento, ma significativo politicamente e idealmente. Invece niente.
In questa davvero eccezionale segmentazione dell'analisi dei singoli fenomeni dalla causa vera che li determina, oltre a vasti settori dei media e dell'informazione, sarebbe vano tentare di celare che si distingue l'attuale gruppo dirigente del Pd. Tutto ciò meriterebbe un lungo ragionamento a parte, me ne rendo conto, ma ne accenno per la parte che riguarda più direttamente questo discorso. Se non c'è lo «stato di eccezione» e se di conseguenza viene scartato lo sforzo più intenso allo scopo di creare un vasto schieramento onde fronteggiarlo, - allora cosa c'è?
Lo dice, a piccoli tocchi e a prudenti dinieghi, l'attuale segretario Bersani, ma lo dice, come al solito con grande decisione e chiarezza, Massimo D'Alema, in una illuminante intervista al Corriere della Sera (17 dicembre). Agli «opposti populismi», - quello di Berlusconi e quello, ca va sans dire, di Tonino Di Pietro, - va contrapposto secondo lui il disegno serio e responsabile di un grande partito riformista, il quale, scrive D'Alema, deve avere «il coraggio di dire che le riforme istituzionali comportano una comune assunzione di responsabilità, senza temere l'accusa (va detto che, comunque, la lingua batte dove il dente duole) di voler fare inciuci». Lo scopo è quello, niente di meno!, «di rifondare il sistema politico e questo è l'unico spazio in cui il Pd può agire, tra gli opposti populismi».
Ma come si fa a pensare che si possa ragionare di riforme con la canea urlante di turibolanti e di corifei che costituisce la corte dell'Uno? Si può benissimo: «interloquendo con quelle componenti riformiste presenti anche nel centrodestra». Ad esempio? Ma è ovvio, come non pensarci: uno che anche nelle opposte, «violente strumentalizzazioni» di questi giorni, fa «considerazioni molto (apprezzare l'intensificazione) ragionevoli», e cioè, of course, Gianni Letta. E Berlusconi (di cui peraltro Gianni Letta è un fedelissimo grand commis)? E il suo disegno eversivo? Non si sa, o, a quanto sembra, non importa.
Dunque la risposta allo «stato d'eccezione», sul quale beninteso D'Alema non spende neanche una parola, né per negarlo né per denunciarlo, è l'«eterna bicamerale», perché non esiste altra parola per definire questa singolare risposta alla crisi verticale del paese.
Sarebbe più ragionevole dire che, se al populismo berlusconiano non si contrappone, e per giunta con qualche fortuna, null'altro che il populismo dipietrista (per quanto, a dir la verità, anche della nutritissima piazza antiberlusconiana non si fa cenno, ed è, occorre dirlo, un silenzio sprezzante, come si conviene ad un adoratore del «politico puro»), la responsabilità sarà se mai proprio del Pd, che non riesce a elaborare una risposta politico-sociale a tale crisi, che appaia più persuasiva di quella del dipietrismo, e al contrario s'infila nel vicolo cieco delle «riforme condivise», nel nome del supremo interesse del paese.
O non l'abbiamo già vista questa storia? Prima di entrare nel merito di una risposta alternativa e possibile, che è la cosa che c'interessa di più, e che cercheremo di fare più avanti, avanziamo alcune facili previsioni. La proposta di una nuova bicamerale con Berlusconi è dirompente: per chi la fa, naturalmente. Bersani potrebbe rapidamente giocarcisi il posto.
Il «populismo» dipietrista risulterebbe agli occhi di un numero sempre più grande di cittadini l'unica opposizione possibile. E il Pd, se non m'inganno, andrebbe a spaccarsi lungo una linea trasversale che taglia tutte le forze che lo compongono.
Siccome a me sembrerebbero tutt'e tre conseguenze non auspicabili, spero che il gruppo dirigente Pd ci ripensi.





IL COMMENTODove ci porta lo stato d'eccezionedi EZIO MAURO



Silvio Berlusconi
IERI è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d'eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.
Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l'intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del "partito dei giudici della sinistra" che avrebbe "scatenato la caccia" contro il premier.

Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa "forme e limiti" per l'esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere "profondo rammarico e preoccupazione" per il "violento attacco" del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L'avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.

Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all'opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.

Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell'avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell'ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: "Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?".

La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d'eccezione. Carl Schmitt diceva che "è sovrano chi decide nello stato d'eccezione", perché invece di essere garante dell'ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione ("abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale"), rende l'istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l'unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.

Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d'eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l'assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l'autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.

Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l'ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l'eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell'attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l'unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell'interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell'esclusivo interesse del singolo. L'eccezione, appunto.

Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l'abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all'accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un'ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell'uomo più potente d'Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?

L'eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un'istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.

Per questo, com'è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d'eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell'Italia di oggi.
© Riproduzione riservata (11 dicembre 2009)

19 dic 2009

in carcere

COMMENTO | di Marco Bascetta
TARTAGLIA TRA L'INCUDINE E IL MARTELLO
Qualche parola, credo, dovrebbe essere spesa sulla sorte di Massimo Tartaglia, non certo per conferire un senso o una giustificazione a un gesto che non ne ha né può averne, ma per evitare almeno che una persona qualunque, malata, vittima delle sue ossessioni, finisca stritolata in un gioco che la sovrasta e la utilizza. Che sia quello dello scontro tra poteri costituiti, tra contrapposte demagogie o tra schieramenti politici. Temo che proprio questo stia accadendo e che la magistratura sia stata sospinta ad agire non sulla base di un'equa considerazione dei fatti, ma con grande attenzione allo scontro in atto con il premier e larga parte del suo schieramento politico.
Non è difficile immaginare i titoli di Libero, del Giornale, della Padania o gli strepiti di Cicchitto, Bondi e Fede, se il giudice per le indagini preliminari Cristina di Censo avesse accolto la richiesta dei difensori di Tartaglia di trasferire l'aggressore di Berlusconi in una struttura protetta, prima in un ospedale psichiatrico, poi in una comunità terapeutica. Meglio, dunque, attenersi alla richiesta del procuratore aggiunto Armando Spataro e lasciare in carcere Massimo Tartaglia. Con l'incredibile motivazione che esisterebbe un concreto rischio di reiterazione del reato (addirittura verso chiunque) nonché la possibilità che l'indagato tenti di inquinare le prove. Come questo possa avvenire tra le mura di un ospedale psichiatrico è a dir poco problematico. Senza contare il fatto che il riferimento a «eventuali prove» inquinabili allude alla possibilità di oscuri retroscena di cui, con tutta evidenza, non v'è traccia. Assai più probabile è dunque che «con l'aria che tira» a prescindere dallo stato di salute di Tartaglia, della sua e dell'altrui sicurezza, prudenza politica suggerisca di tenerlo in galera, almeno fino a quando si saranno calmate le acque.
Tutto ciò non scandalizza né i fieri avversari del «comunismo giudiziario», né gli apologeti di una magistratura salvifica e pura che dovrebbe tenerci al riparo dalle malefatte della politica. Corporazioni e poteri, compresi quelli giudiziari, sono assai poco inclini a mettere in secondo piano i propri interessi e il calcolo delle opportunità, condannando all'insignificanza la vita e la sofferenza di un singolo. Non è la prima volta che ne danno prova. E anche la stampa, pur costretta a difendersi dalla ridicola accusa di essere «mandante morale» dell'aggressione di piazza Duomo, dovrebbe prendere molto sul serio i legittimi timori dei familiari dell'aggressore.


ilmanifesto

14 dic 2009

TARTAGLIA STA GUARENDO

"Si potrebbe almanaccare a lungo sul valore simbolico di quel gadget a forma di duomo di Milano (se le testimonianze riferite dicono il vero) scagliato sul volto dell’uomo che dalla Madunina ha cominciato il suo viaggio verso il potere. O meglio, l’onnipotenza. Un volto che artifici cosmetici e chirurgici vorrebbero conservare intatto nel tempo, e che in un attimo viene prostrato dal sangue che copioso sgorga dalla ferita. E il sovrumano rientra nei limiti dell’umano."
(Angelo d'Orsi)

immagine di Edoardo Baraldi

13 dic 2009

Ivan Illich


A differenza della produzione di beni e servizi, il lavoro ombra è svolto dal consumatore di merci, specificatamente dal nucleo familiare consumatore. Definisco lavoro ombra qualunque attività con la quale il consumatore trasforma una merce acquistata in un bene utilizzabile. Chiamo lavoro ombra il tempo, la fatica e lo sforzo che è necessario investire per aggiungere a qualsiasi merce acquistata il valore senza il quale non sarebbe utilizzabile. Lavoro ombra è dunque un’attività cui le persone sono costrette a dedicarsi nella misura in cui cercano di soddisfare i propri bisogni mediante le merci. (Ivan Illich)

Ibrahim non fa notizia

di Gianni Rinaldini *
Ibrahim non fa notizia
Il segretario Fiom Rinaldini scrive ai direttori dei giornali «L'immigrato ucciso dal padrone, risorsa umana dismessa»
Egregio Direttore,
qualche giorno fa, in provincia di Biella, un ragazzo è andato dal suo datore di lavoro per chiedere che gli venissero pagati tre mesi di stipendio arretrato: qualche migliaia di euro che si era guadagnato onestamente, lavorando tutti i giorni e facendo quindi ciò per cui era stato assunto. Forse ne è nata una discussione, forse il ragazzo e il datore di lavoro - un artigiano - hanno litigato, forse si sono insultati, non sappiamo. Ciò che importa è che il datore di lavoro lo ha ucciso con nove coltellate, ha forse chiesto aiuto a qualcuno di fidato, ha caricato il corpo del ragazzo nel bagagliaio di una macchina e lo ha scaricato sulla riva di un torrente, nella vicina provincia di Vercelli. Il datore di lavoro si è così disfatto di «qualcosa» che in quel momento risultava essere inefficiente e antieconomico per la sua impresa edile: un peso morto.
Il corpo del ragazzo è stato poi trovato senza vita dalla polizia ed è stato quindi identificato dai suoi familiari. Il ragazzo si chiamava Ibrahim M'Bodj, aveva 35 anni, era originario del Senegal e lavorava in edilizia. Il datore di lavoro ha ammesso di averlo ucciso. Sì, il ragazzo era un immigrato, uno di quei tanti uomini e donne che decidono di lasciare il proprio paese alla ricerca di condizioni di lavoro e di vita migliori. Uno di quei tanti che sperano di trovare un lavoro che gli permetta di avere una prospettiva di vita dignitosa, che possa garantire un futuro migliore a se stesso e ai suoi familiari; un lavoro che possa garantire una prospettiva di vita, appunto. Ibrahim ha trovato condizioni di lavoro che gli hanno dato la morte. Ibrahim non ha trovato un datore di lavoro, ma un padrone con potere di vita e di morte su di lui.
Ibrahim era un ragazzo normale come tanti altri. Ibrahim non era un eroe, e quando è andato a chiedere che gli venissero pagati i tre mesi di stipendio arretrati pensava di andare a chiedere solo ciò che gli spettava legittimamente. Di certo non pensava che quelle sarebbero state le ultime ore della sua vita. Di certo non pensava di fare niente di eccezionale. Per tre mesi si era arrangiato e aveva aspettato, ma a quel punto - dopo novanta giorni senza stipendio - doveva continuare a vivere, doveva fare qualcosa, e ha deciso di chiedere all'artigiano per cui lavorava ciò che gli spettava, niente di più.
La ferocia della reazione del datore di lavoro è purtroppo significativa del clima sociale e culturale del nostro tempo. Ma ciò che quasi ancor più ci colpisce di questo episodio è il fatto che i giornali, le televisioni, e in generale i mass media, se ne siano completamente disinteressati. Nei giorni successivi al ritrovamento del corpo di Ibrahim, quasi nessuno ha scritto o detto qualcosa su ciò che era successo, con pochissime eccezioni come nel caso del manifesto che ha scelto di dare rilievo a questa storia orribile. E allora viene in mente l'idea che, a parti rovesciate, si sarebbe forse mobilitato l'intero circo mediatico e che per settimane questo episodio sarebbe stato, giustamente, al centro delle riflessioni e delle analisi di politici, giornalisti, intellettuali e opinionisti vari, animando una fitta serie di dibattiti e discussioni.
Ibrahim, evidentemente, aveva una doppia sfortuna: era un lavoratore ed era un immigrato. Ibrahim era doppiamente invisibile, nonostante avesse un contratto di lavoro regolare e soggiornasse regolarmente in Italia da molti anni. Ibrahim non era uno qualsiasi: non era nessuno.
Per il suo datore di lavoro, probabilmente, Ibrahim non era un uomo in carne e ossa, dotato di una vita propria. Sì, certo, era umano, ma era una risorsa, una risorsa umana, alla pari o forse poco più importante delle risorse tecnologiche, di quelle energetiche o naturali, di quelle organizzative. E se una risorsa, anche se umana, non serve più, la si dismette, se ne fa a meno, la si scarica. Certo, per dismettere le risorse, ci sono modi civili e modi incivili, ma il concetto è sempre lo stesso.
A pensarci bene, questa è anche, e sempre di più, la logica costitutiva di quello che, non a caso, viene definito come il «sistema di management dell'immigrazione» degli Stati liberali (non solo dell'Italia). Primo: prendere le risorse umane che ci servono (qualche tempo fa si diceva di prendere gli immigrati che sono disponibili a fare quello che gli italiani non vogliono più fare, ma l'attuale crisi economica ha complicato un po' le cose). Secondo: essere ancor più ricettivi nei confronti delle risorse umane che possono contribuire a fare acquisire al paese un vantaggio competitivo nei settori produttivi strategici (gli immigrati con alte competenze professionali). Terzo: evitare l'arrivo delle risorse che non risultano utili o, nel caso in cui queste siano già presenti, reindirizzarle verso i paesi da cui provengono. Anche in questo caso, esistono modi civili e modi incivili di disfarsi di queste particolari risorse umane: le si può rimpatriare, se mai attraverso incentivi economici, ma si può anche buttarli a mare come le scorie radioattive.
Per quel datore di lavoro, Ibrahim era una risorsa da dismettere. Se si fosse trovato senza lavoro e senza la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno, Ibrahim sarebbe potuto diventare una risorsa da dismettere anche per l'intero paese Italia. Ma, evidentemente, è proprio così che è stato considerato da molti di coloro che fanno parte dei salotti televisivi, delle redazioni dei giornali e dei telegiornali. Un uomo che muore può fare notizia, una risorsa dismessa no. Se poi questa risorsa è straniera, anzi extra-comunitaria, è come se non fosse mai esistita.
Ci sono dei singoli avvenimenti che hanno la capacità di raccontare un dato assetto della realtà sociale quanto un'analisi statistica o un'inchiesta sociologica, se non addirittura di più. Rappresentano quello che sta accadendo in determinati tempi e luoghi, di sintetizzare il senso dei processi sociali e culturali che attraversano questi luoghi e tempi, e di svelare le logiche che sottostanno ai sistemi mediatici.
Sono passati più di vent'anni dall'assassinio di Jerry Maslow, un omicidio che tanto clamore e tanta indignazione suscitò nella società civile. Ciò avvenne anche grazie all'attenzione che i mass media del nostro Paese dedicarono allora a quell'episodio. L'impressione è che oggi, a venti anni di distanza, si sia tornati indietro di secoli.

* Segretario generale Fiom-Cgil


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9 dic 2009

4 dic 2009

Salute mentale, la Puglia si affida al privato

Salute mentale, la Puglia si affida al privato
Di AipsiMed , Mar, 27/05/2008 - 08:21
http://www.aipsimed.org/node/1707
Di Rosa Stano. Dopo la chiusura dei manicomi, a seguito della legge 180, una serie di inadempienze, di omissioni e di latitanze da parte delle istituzioni ha portato al fallimento dei vari Progetti Obiettivo in campo nazionale e regionale.
Il malfunzionamento dei Servizi territoriali, assolutamente non in grado di garantire la totale presa in carico dei pazienti e di assicurare loro le cure e la riabilitazione adeguata, la mancanza di personale opportunamente motivato e formato, l’assenza di una rete sociale in grado di promuovere un effettivo processo di integrazione socio-sanitaria sono le manifestazioni più eclatanti del fallimento di una politica sanitaria basata ormai sul
sistema delle deleghe. In base al “principio di sussidiarietà”, infatti, si è ritenuto più facile delegare ai privati la Salute Mentale, appaltando strutture e pagando per rette, sottraendo risorse umane ed economiche al servizio pubblico, senza alcuna garanzia di buon funzionamento.
A metà della legislatura che vede al governo della Regione Puglia una Giunta di centro-sinistra, il cui programma elettorale non poche speranze aveva alimentato avendo assunto, tra le priorità, l’impegno di un radicale cambiamento delle politiche della Salute Mentale, si registra invece una deludente gestione dell’esistente, nel segno della continuità con politiche calibrate sugli interessi consolidati di pochi gruppi privati, trasversali alle forze politiche, che dall’attuale configurazione dei servizi psichiatrici traggono “ fatturato” e quindi ostacolano qualsiasi
ipotesi di cambiamento che metta in discussione la loro cospicua fetta di mercato.
Questo spiega l’anomalia pugliese così come emerge dai dati riportati anche nella Bozza di Piano Sanitario Regionale nel capitolo sulla Salute mentale: eccesso di posti letto nelle strutture riabilitative, tutte private (2,59 p.l. ogni 10.000 abitanti contro 1 p.l. previsto nel Progetto Obiettivo Nazionale) con un basso turn- over (il 52% è ospite della stessa struttura per più di tre anni, mentre il 44%, alla dimissione, passa in altre strutture: in pratica non si riabilita nessuno!). Un timido, ma significativo, segnale di cambiamento si era prodotto con la Legge Regionale 26/2006 (Interventi in materia sanitaria) che all’art. 9 (Disposizioni programmatiche per la Salute mentale) aveva recepito alcune istanze avanzate dalle Associazioni di tutela dei pazienti e da Psichiatria
democratica: l’apertura dei C.S.M. per 24 ore con l’adeguamento del personale e con dotazione di posti letto in day-hospital, forme di riabilitazione alternative alla residenzialità in strutture private, vincolo dell’innalzamento degli standard minimi per gli accreditamenti, istituzione di una Commissione regionale, composta anche da rappresentanti delle associazioni di tutela dei pazienti, avente funzioni di proposta, monitoraggio e verifica
sull’attuazione delle politiche di salute mentale.
Ebbene, a distanza di due anni nulla è stato attuato: la Commissione, pur istituita con D.G.R. n.36 del 23/01/2007, non è mai stata convocata e resa operativa; i C.S.M. continuano a funzionare (?) solo per sei ore al
giorno e a configurarsi come meri ambulatori, impossibilitati, per carenza di risorse e di personale, a rispondere
alla complessità dei bisogni dei pazienti e delle famiglie, mentre le decisioni politiche continuano a favorire e a potenziare le nuove forme di istituzionalizzazione (leggi minicomi) gestite monopolisticamente dal Privato sociale che assorbe i due terzi delle già scarse risorse destinate
alla Salute Mentale. Nel frattempo, tanto per ribadire quali sono gli interessi
prioritari in campo, un solo atto concreto da parte del governo regionale: si tratta della deliberacon la quale la Giunta ha aggiornato le tariffe delle strutture residenziali in mano ai
privati, con una spesa di ben 4 milioni di euro, assicurando il pagamento del “vuoto perpieno”egarantendo loro la gestione di tutte le strutture riabilitative presenti e future e persino dell’assistenza domiciliare. Delibera che, nonostante la mobilitazione di Psichiatria Democratica, della CGIL, delle Associazioni di utenti e di familiari e la presa di posizione del
consigliere regionale Pietro Manni, è passata col “silenzioassenso” della Commissione Sanità.
Ed ancora, nel Documento di indirizzo economico funzionale del S.S.R. 2008, D.G.R. n. 95 del 31/01/2008, vengono destinati in favore degli ex ospedali psichiatrici di Bisceglie e Foggia, gestiti dall’Ente ecclesiastico “Casa della Divina Provvidenza Opere Don Uva”(1), risorse per 71.540.000,00 euro. Di contro, con le briciole restanti, 465.000,00 euro, si pretende di migliorare la qualità dei S.P.D.C. dove si continua a fare uso e abuso di contenzione, e neanche un euro può essere destinato al potenziamento dei C.S.M. ed all’adeguamento del personale dei servizi pubblici, lasciando così inattuata la L.R. 26/2006. La lettura della bozza di P.S.R. conferma come la permeabilità delle Istituzioni, nelle componenti politica e burocratica, ai “poteri forti” comprometta irrimediabilmente la possibilità di aprire una fase nuova di ridefinizione delle politiche di salute mentale. A dir poco schizofrenico, infatti, appare il capitolo sulla Salute mentale laddove, mentre nella prima parte l’analisi delle anomalie e delle criticità strutturali della risposta pubblica alla domanda di salute mentale è corretta e se ne individuano le cause nello sbilanciamento delle risorse in favore delle strutture gestite dai privati, peraltro non sottoposte ad alcuna valutazione di qualità ed efficacia, nella seconda parte, di definizione delle strategie, nulla di conseguente è riscontrabile, nessuna misura va nella direzione di nuovi percorsi terapeutici e riabilitativi centrati sulla persona sofferente, atti a garantire la restituzione del diritto ad un ruolo sociale, alla casa, alla formazione, al lavoro; ancora trascurata la Neuropsichiatria infantile; nessuna progettualità per gli inserimenti lavorativi; nessuna iniziativa per l’apertura dei CSM oltre le sei ore.
Se questo è lo stato delle cose, nessuna meraviglia se il destino dei pazienti psichiatrici è ineluttabilmente quello della cronicizzazione e, tante volte, quello della morte violenta, come recentemente è accaduto per due donne che non hanno potuto trovare accoglienza presso il Servizio territoriale che serra i battenti dopo le ore 14.00, una deceduta in seguito ad un T.S.O., legata al letto di un reparto psichiatrico, nonostante l’avanzata età di 81 anni, e l’altra suicida per
disperazione e per abbandono: morti che non meritano indignazione, non analisi sociologiche, non autocritica da parte di amministratori e addetti ai lavori, morti da nascondere per non infastidire i responsabili. Non si vede, purtroppo, chi oggi avverta l’urgenza di costruire un altro Marco Cavallo: allora si trattò di liberare i matti da luoghi di aberrante segregazione,oggi di liberarli dalle pervasive forze del mercato.
E non è certo più facile!

2 dic 2009

FUORI ONDA


fonte Repubblica.it
versione integrale sottotitolata

26 nov 2009

QUASI QUASI MI ABBONO A FAMIGLIA CRISTIANA

Non c’è nulla. E quel poco che c’era è stato cancellato. Per la famiglia, i figli, gli anziani e gli handicappati nella Finanziaria non è previsto un euro. Nessun governo è riuscito a fare un così straordinario salto mortale all’indietro comeNon c’è nulla. E quel poco che c’era è stato cancellato. Per la famiglia, i figli, gli anziani e gli handicappati nella Finanziaria non è previsto un euro. Nessun governo è riuscito a fare un così straordinario salto mortale all’indietro come quello guidato da Berlusconi. Famiglia Cristiana, 25 novembrequello guidato da Berlusconi. Famiglia Cristiana, 25 novembre

fonte l'unità.it

23 nov 2009

purezza e stato di eccezione: a cosa servono i neofascisti


[di Luca Negrogno]

I gruppi di estrema destra che oggi fanno riferimento alla retorica e alla simbologia del fascismo sono in un rapporto di collaborazione e riconoscimento reciproco con la classe dirigente del partito che governa il paese. I gruppi neo fascisti che negli ultimi anni hanno convogliato la partecipazione popolare, soprattutto giovanile, nella lotta all’invasione straniera e nella difesa dei valori tradizionali della famiglia e della religione, nelle ultime tornate elettorali nazionali hanno stipulato accordi di appoggio elettorale con il gruppo dirigente del centro-destra italiano. queste formazioni, il cui peso politico si sostanzia in percentuali che vanno dall’1% a livello nazionale al 2,7% alle regionali in lombardia del 2005 sono state una delle tante masse di manovra che la classe dirigente berlusconiana ha mosso sullo scacchiere della partecipazione politica. I personaggi di riferimento della destra estrema, per vie traverse, sono tutti riconducibili all’eversione di destra degli anni della "strategia del terrore": gli attuali leader di gruppi come Forza Nuova, Movimento Idea Sociale, Fronte Sociale Nazionale, sono figli della generazione che negli anni ’70 si è resa protagonista della reazione armata e violenta alla forza di penetrazione espressa dai movimenti politici della sinistra, spesso con la connivenza e il sussidio di settori dell’esecutivo.

La classe dirigente del paese ha negli ultimi anni attuato una forma di sdoganamento dell’ideologia e della retorica fascista, portando a compimento l’equazione che pone sullo stesso piano il fascismo e l’antifascismo. Dalla caduta dell’ordine politico forzatamente ricalcato sui grandi blocchi della guerra fredda è emerso un sistema politico che ha inseguito un miraggio di neutralità ed equidistanza rispetto alle tradizioni culturali che, da sinistra e da destra, criticavano la democrazia liberale. In questo processo, la retorica degli "opposti estremismi" ha finito per equiparare fascismo e resistenza. Appiattendo l’antifascismo sulla tradizione della cultura comunista, il sistema politico italiano ha finito per assumere l'assioma della specularità totale di comunismo e fascismo come due contigue manifestazioni di un cieco furore ideologico, naturalmente portato a sfociare nel totalitarismo. Parallelamente, la democrazia italiana ha smesso di riconoscersi nel mito fondativo della resistenza, dell’antifascismo, della collaborazione tra i filoni culturali che, opponendosi alla dittatura fascista, avevano gettato le basi di un sistema di valori da riconoscere, sempre e comunque, come proprio.

Ogni comunità necessita di riconoscersi in un mito che spieghi ai propri membri cosa pensare quando questi dicono "noi". la domanda sul senso dell'esistenza rischia di precipitare ciascuno nell’abisso che assolve da qualsiasi possibile legame, qualsiasi possibile con, nel buio di un io senza fondo. tale interrogativo perviene ad un relativo acquietamento dal momento in cui la comunità del noi risce con una certa stabilità a definire "cosa non siamo", cos’è ciò da cui ci distanziamo, cosa noi non dobbiamo essere, cosa deve stare fuori, cosa noi dobbiamo combattere.

La Repubblica italiana rinata a una forma democratica dal secondo conflitto mondiale aveva costruito il proprio mito fondativo sulla resistenza. Ma la democrazia che il sistema politico italiano ha espresso, a causa di una serie di tendenze storiche e sociali che vanno dalle ferree necessità dell’equilibrio internazionale alle forme di cancrena della struttura sociale ed economica del paese, è stata sempre imperfetta, a sovranità limitata, "corretta" nelle sue dinamiche da poteri che, agendo negli interstizi delle istituzioni democratiche, sono spesso riuscite a svuotarne il senso più profondo e ad orientarne gli esiti decisionali.

I gruppi storici del neofascismo italiano sono stati spesso degli strumenti manovrati dalle classi dirigenti dello stato per inoculare il terrore e la provocazione nei movimenti a larga partecipazione sociale che avevano interessato la vita politica italiana negli anni sessanta e settanta. Parallelamente, sopravviveva come gruppo parlamentare il partito Movimento Sociale Italiano, ispirato alla ideologia social-nazionale del fascismo, corteggiato dalla democrazia cristiana durante i periodi di maggiore instabilità dell'esecutivo. Alla sua destra si poneva una serie di movimenti extraparlamentari (Ordine Nuovo , Avanguardia Nazionale, Nuclei Armati Rivoluzionari , Terza Posizione e Costruiamo l'azione) che era con l'MSI in rapporti di critica, intermezzata da momentanei riavvicinamenti. I gruppi dirigenti di queste formazioni, costantemente oscillanti verso il terreno della clandestitnità e del terrorismo, intrattengono costanti rapporti con i vertici dei servizi segreti e delle forze armate, come hanno dimostrato le commissioni di inchiesta parlamentari degli anni '90 sul terrorismo nero e le stragi.

Negli ultimi dieci anni, i gruppi alla destra di Allenza Nazionale, che sempre più al vertice ha intrapreso un percorso di "berlusconizzazione", oscillano tra varie forme di organizzazione. I processi di riaggregazione e ritorno nell'alveo della destra istituzionale hanno incontrato l'opposizione interna dei gruppi più esplicitamente orientati verso la "terza alternativa" rispetto al bipolarismo parlamentare. Il momento di massimo riavvicinamento alla classe dirigente berlusconiana è il 2006, quando le forze neofasciste si ricongiungono in Alternativa Sociale. Forza Nuova, il movimento che raccoglie la maggiore partecipazione popolare e giovanile tra i gruppi dell'estrema destra è ancora molto vicina all'attuale primo ministro durante l'opposizione al governo Prodi, ha un ruolo di rilievo anche nella manifestazione di piazza del 2 dicembre 2006. Ma la conflittualità interna all'ambiente della destra estrema è forte, tanto da provocare la disgragazione del fronte creato da Alessandra Mussolini e originare, per le politiche del 2008, una ridislocazione radicale dei gruppi e dei leader. Oggi Forza Nuova, presentatasi autonomamente alle ultime elezioni politiche, riprende i temi fondamentali del fascismo "sociale", accompagnati da una forte connotazione xenofoba. Ma sono molteplici le tendenze e gli approcci culturali e politici che si fanno sentire nel movimento, i cui confini sono estrememente fluidi dato che le forme di militanza si ibridano con l'azione politica al di fuori del partito, in gruppi radicati su specifici territori, nella militanza ultras, nei centri sociali di destra. Ciascuno di questi campi stimola maggiormante elementi diversi: la "militanza di strada", le "ronde", i gruppi che vigilano i centri e le pariferie delle città del centro e del nord, sono fortemente orientati verso i temi della purezza nazionale, della lotta alla delinquenza straniera. Nei centri sociali, fenomeno particolmante radicato nell'area romana, si unisce alla militanza politica l'attenzione verso la cultura neo-pagana delle epopee nordiche, la ripresa dei temi dell'elitismo irrazionalista. I gruppi ultras di destra hanno negli ultimi anni colonizzato tutte le curve calcistiche italiane, anche quelle che si erano tradizionalmente orientate ad esprimere il tifo delle classi popolari con i simboli della sinistra; i gruppi ultras sono caratterizzati dalla ricerca dello scontro con le tifoserie avversarie e le forze dell'ordine, l'opposizione alla mercificazione e alla finanziarizzazione del calcio moderno, le pratiche xenofobe. Inoltre Forza Nuova organizza annualmente i campi di socializzazione politica, in cui si susseguono dibattiti, confronti, concerti di "rock non allineato" e banchetti di marketing identitario. I gruppi giovanili conducono campagne contro le droghe e, in generale, il conformismo consumistico, le manifestazioni spettacolari dei fenomeni televisivi (per esmpio nel maggio del 2008 un gruppo neofascista di roma manifesta e interrompe la serata in diretta della trasmissione "Grande Fratello" da piazza San Giovanni. I militanti, intervistati dai giornalisti di Annozero, raccontano di aver votato per Berlusconi, l'unico capace di difendere l'Italia dal comunismo e dai poteri forti globali rappresentati dalla sinistra).

In generale, si riprendono le "due o tre cose buone" fatte dal fascismo (con riferimento alla socializzazione delle industrie, alla modernizzazione, all'orientamento popolare e anticapitalista), si propugna la purezza spirituale della nazione (non mancano tratti anche più biologistici, le metafore medico-immunitarie), si vagheggia un concetto preponderante di Onore, si riprende l'elitismo dalle letture di Evola, si mischiano tradizionalismo cristiano e neopaganesimo celtico, battaglia di Lepanto e Tolkien.

L’ideologia dei ragazzi che si riconoscono in questi gruppi mostra una profonda carenza di analisi, di consapevolezza storica, di riflessione critica sui valori. Ciò emerge chiaramente nelle prese di posizione a proposito della shoah e delle persecuzioni naziste: si nega il mito dell'olocausto non in virtù di una analisi storiografica, ma fondamentalmente per profonda ignoranza. L'identità dell'odierna destra estrema ha ripreso elementi che negli ultimi anni avevano caratterizzato la retorica politica dell'estrema sinistra e dei movimenti no-global, come l'antiamericanismo e l'opposizione popolare alle potenze plutocratiche; un fenomeno per certi aspetti simili si può individuare anche nell'antisemitismo tipico del fascismo europeo, che oggi si tinge di coloriture antisionistiche appropriandosi della retorica filo-araba dell'antisionismo di sinistra. Si può dire che, da questo punto di vista, sia caduto un confine tra le culture "radicali" che avevano occupato il sistema politico degli ultimi anni. Un confine, però, la cui porosità è stata a un certo livello di osservazione sempre evidente.

Non ci spingeremo qui a considerare le oscillazioni che lungo la prima metà del novecento hanno caratterizzato il concetto di "rivoluzione", alla cui retorica hanno pienamente attinto i movimenti fascisti e nazionalsocialisti, o le posizioni del comunitarismo degli anni '70 sull'auspicato ricongiungimento di estremismo di destra e sinistra in forze collettiviste nazional popolari. Il fatto è che, se il confine oggi ci sembra caduto, è anche perchè la sinistra radicale europea, nel tentativo di ridefinire la propria identità dopo la fine dei grandi partiti comunisti occidentali, ha civettato, in funzione anti-globalizzazione, con valori tipici della destra come il nazionalismo, il tradizionalismo e l'autenticità etnica, senza affrontare l'approfondimento che la problematicità di certe scelte strategiche avrebbe richiesto.

C'è, tra gli altri, un problema di rappresentanza di classe alla base di questo fenomeno, che ci appare come una crisi di identità delle forze poste agli estremi del panorama politico a vantaggio di una coagulazione dell'opinione pubblica al centro, un centro le cui alternative di orientamento esprimono un'alterità reciproca estremente limitata dal punto di vista della gestione dei processi sociali ed economici. Da sinistra, ci appare chiaramente che l'elemento più caratterizzante dei partiti "radicali" è stato il totale abbandono della dimensione "proletaria", che sopravvive solo come etichetta, senza esprimere la classe sociale rappresentata da quei partiti. La sinistra italiana è assolutamente borghese; esprime sicuramente la migliore borghesia, in un contesto in cui non ha mai avuto modo di affermarsi una middle class imprenditorialmente avanzata e dotata di valori civici, laici e liberali, che fosse rappresentata da una forza politica adeguata. Ma la borghesia di sinistra, nei partiti comunisti, non è riuscita a stipulare alcuna forma di comunicazione con il proletariato, ha tralasciato uno dei compiti storici che il marxismo classico attribuiva al partito: la socializzazione politica delle masse di sfruttati. Oggi la sfida sarebbe quella di recuperare alla politica le masse che si situano al di là della linea mobile dell'esclusione, la popolazione marginale e periferica che non ha accesso alla libera informazione, alla cultura, alle possibilità economiche e sociali di modificare il proprio destino, di ritenere il proprio destino qualcosa di politico, e politicamente modificabile.

I gruppi neofascisti attraggono masse di giovani proletari ponendosi come unica opposizione rispetto ad un sistema politico fatto di connivenze e accomodamenti ad un potere plutocratico, fondato sulla distruzione dei valori fondamentali, colpevole della peggiore ipocrisia, che attraverso la retorica democratica nasconde l'omologazione dei consumatori, dietro la retorica multiculturalista favorisce la contaminazione etnica che è, in ultima analisi, strumento per lo sfruttamento delle masse. Tale potere è il frutto dell'accordo della grande finanza globale, del movimento sionista, della politica nichilista che la sinistra avalla. Di contro, i neofascisti sono socializzati a questa religione prepolitica abbarbicata stabilmente su pochi, immediati, valori dalla purezza e verità evidenti: tradizione e cristianità, purezza etnica europea, ricerca di una terza posizione alternativa ed equidistante al capitalismo americano come ai regimi storici del comunismo realizzato. Si riafferma la purezza della comunità europea, contro la disgregazione sociale e la contaminazione culturale provocata dal potere finanziario-nichilista.

Emerge l'ansia di giustizia che anima i giovani fascisti. La sensazione di vivere in un mondo sporco e insensato, di una vita sottoposta ad un potere ipocrita che si giova di un mondo impuro. Il rifiuto di un futuro fatto di precariato, consumo omologante e ipocrisia; il conseguente tentativo di ristabilire una visione epica della vita. I nemici sono evidenti: le grandi forze della penetrazione finanziaria che rompe l'unità comunitaria ancorata alla terra (cioè: il sionismo e il suo alleato americano); gli italiani che, ormai contaminati dai non-valori dominanti, divengono vuoti, omologati, omosessuali, compagni (quindi: servi inconsapevoli, e come tali ancora più colpevoli, della distruzione dei valori puri della tradizione, svirilizzati e irregimentati, drogati e atei, illusi e manovrati dal salottiero bertinotti); gli immigrati che aggravano la crisi di valori della nostra comunità nazionale contribuendo a romperne l'unità culturale e raziale, fornendo la massa di manovra al capitale finanziario globale che sposta gli uomini sradicandoli dalle loro comunità di terra e sangue (e quindi rendendoli tutti potenziali criminali, stupratori, ladri, dissacratori) per poter condannare i giovani della bionda europa ad un futuro di sfruttamento e precarietà.

La citazione di un fatto può aiutarci a capire. Il tre maggio del duemilaotto l'episodio di violenza che ha attirato l'attenzione dei media sul fenomeno neofascista: nicola tommasoli, 29 anni, viene aggredito e ucciso da un gruppo di 5 ragazzi tra i 17 e i 25 anni, abituali frequentatori della curva dello Hellas Verona, militanti in formazioni che fanno esplicito richiamo alla simbologia nazista, figli della media borghesia produttiva del nord-est. Emerge all'attenzione dell'opinione televisiva l'escrescenza neofascista veronese: ragazzi che presidiano le strade del centro, tengono pulita la città; fanno sentire la loro presenza nei locali dello struscio serale e nelle piazze; ce l'hanno con i comunisti, i salentini; i giornali dicono: chi ha stili di vita diversi dai loro (la semiotica del corpo, il discorso dei capelli e degli ornamenti, delle marche di jeans e magliette, tutto è espressivo, data la convivenza nei medesimi luoghi pubblici, le stesse piazze e gli stessi luoghi di consumo). Quando le luci del centro si spengono, la serata non è finita: si va in periferia a cercare immigrati, barboni. L'applicazione della legge mancino contro l'istigazione all'odio raziale, il reato di rifondazione del disciolto partito fascista sono paventati durante le indagini della procura sui gruppi ultrà, già nel 2006; negli ultimi cinque anni finiscono coinvolti dai provvedimenti giudiziari personaggi della destra istituzionale del nord-est, uomini di rilievo della lega nord e dell'amministrazione locale di Verona. Si susseguono i gradi di giudizio, non ci sono ancora sentenze definitive. Ma la morte di tommasoli fa emergere un mondo fino ad allora rimosso nei dibattiti televisivi e nelle lapidarie dichiarazioni dei politici (si ricordava solo la polemica sugli "impresentabili", estremisti di folkloristica simmetria televisiva, con prodi e berlusconi, durante la compagna elettorale del 2006). Dal PDL, la solfa è: crisi educativa (come giustamente sottolineato dal santo padre), assenza delle famiglie, fenomeni di bullismo. Dal PD: imbarazzo e costernazione, condanna, "vicenda inquietante", "e' fondamentale l'impegno di tutti perche' non torni un clima di violenza politica e di insicurezza per i cittadini'', conclude Veltroni. La sinistra extraparlamentare dice: berlusconi, lega, aenne e forza nuova: tutti fascisti. Le condizioni di partenza sono dure, ma con una buona dose di calma e onestà potrebbero nascere un dibattito, una riflessione. Termina tutto dopo qualche giorno: sulla prima pagina di repubblica e corriere, i ragazzi dei centri sociali bruciano una bandiera israeliana durante le proteste contro il salone del libro a torino: dopo un'esternazione del vicepresidente del consiglio Fini ("è più grave") il dibattito diventa se sia più pericoloso per la tenuta delle istituzioni democratiche un ragazzo ammazzato o una bandiera bruciata. PD e PDL tergiversano e si rintuzzano dalle prime pagine. L'obiettivo è raggiunto: il ribellismo montante va scongiurato, è un epifenomeno della generalizzata condizione di insicurezza in cui versa la cittadinanza: la soluzione è rifugiarsi al centro, nell'alveo stabile delle libertà democratiche.

In qualche modo, i neofascisti sono solo ciò che serve a farci sentire al sicuro nella nostra democrazia svuotata di significato. Sono una forza minoritaria e marginale; di fronte agli inquietanti episodi diviolenza potremmo spenderci nell'interrogativo: è possibile mai che possano mettere in pericolo la nostra democrazia? No, ci rispondiamo velocemente: sono pochi, marginali, i maggiori partiti nazionali hanno ormai preso le distanze da questi estremisti: la democrazia è salva ( si ingenera una situazione aporetica: portando all'estremo questo pensiero arriviamo a dire: il problema della democrazia è la parresia, che certa genta possa dire pubblicamente certe cose, che tutti possano dire quello che vogliono. La democrazia va salvata da se stessa). Temiamo per la nostra democrazia, ma non sappiamo bene per che cosa temiamo.

La condanna è un atteggiamento sterile. Dovremmo iniziare a chiederci a cosa servono, a cosa serve che loro esistano. I ragazzi socializzati a questa religione prepolitica servono a mantenere uno stato di eccezione all'interno della rappresentazione del potere statuale democratico. Sono proletari, vengono socializzati allo scontro con le forze dell'ordine; il loro onore e la convinzione delle loro scelte non allineate li conduce verso i DASPO (provvedimenti di allontanamento dalle manifestazioni sporitve), le diffide, i provvedimenti precauzionali di sorveglianza, le denunce, le sanzioni, i processi, i casellari sporchi. In virtù di tale processo di soggettivazione, sono sempre ai margini, non aspirano a far parte di alcuna "classe dirigente", a ricoprire posizioni di rilievo nel sistema sociale e politico: sono tenuti ai confini, la loro socializzazione politica è funzionale a tenerli ai margini, a fare in modo che mai loro si vedano come esclusi da un sistema in cui vorrebbero entrare. Per la buona società (cioè: noi nelle aule universitarie, soprattutto) sono etichettati, devianti (per i salotti televisivi e i portavoce di partito c'è bisogno del caso che faccia esplodere l'etichettamento; c'è: quando dal pestaggio di normale amministrazione ci scappa il morto). Loro si autorappresentano come puri, non allineati, votati alla causa, resistenti rispetto all'omologazione. Attraverso di loro si esternalizza il potere sovrano che decide sullo stato di eccezione. Come nella produzione "postfordista", le democrazie liberali attribuiscono a chi sta ai margini della rappresentazione il lavoro sporco. Lo fanno gli Stati Uniti con la tortura, delegandola agli alleati meno schizzinosi, lo fanno i grossi loghi occidentali con la produzione dei manufatti nei paesi a basso costo e basse garanzie per la forza-lavoro. Lo fa il potere sovrano con la gestione della purezza nella città, la continua riaffermazione delle linne di separazione interne al gruppo sociale. I neofascisti ono proletari, figli della piccola borghesia sempre più marginalizzata dalla cultura e dall'informazione, sono figli di operai, piccoli commercianti sempre più indifesi e sfiduciati dalle condizioni di lavoro, sottoposti alla concorrenza della forza-lavoro immigrata e del mercato globale. Hanno di fronte, come dicono i leader dei loro partiti, un futuro di precarietà e disoccupazione. Sono i ragazzi sui quali si è manifestato il profondo fallimento delle agenzie di socializzazione di cultura, sono i ragazzi a cui la scuola non riesce a trasmettere alcun valore, con cui i professori non riescono a comunicare. Sono i ragazzi a cui comunicano in maniera molto indiretta e trasversale anche i modeli di consumo dominanti per adolescenti: mentre a livello ei contenuti vengono rifiutati in quanto trasmettono un'idea vuota di successo, un edonismo senza valori, perverso e drogato, i modelli di consumo dominante penetrano ad un livello più subdolo, formale: comunicano la levigata uniformità dell'identitificazione pura; i giovani neofascisti traggono dai modelli della comunicazione di massa la struttura formale del modello, dell'identità, della separazione nelle sfere del consumo. Reinterpretano tale identificazione creandosi una comunità di Onore, un'avanguardia, una guardia, che vigili sull'ordine nei luoghi di consumo, ben capace di distinguere cosa è giusto che ci sia in una piazza o in un pub il sabato sera. (ci siamo noi, che difendiamo la pulizia dei luoghi; ci sono loro: gli infami, gli sporchi, i compagni, a cui dobbiamo dare una lezione - non fatevi vedere in giro; ci sono gli altri, quelli che stanno al loro posto, non hanno l'onore, non danno la vita per la causa, ma sono puliti. li riconosciamo al primo sguardo, tutti). Non tengono pulite solo le periferie: stanno, chiaramente visiili, nel centro delle città (ancora l'esempio di Verona). I cittadini, che non direbbero mai: "io sono fascista", sono contenti che loro ci siano, che ci sia qualcuno che finalmente tiene un po' d'ordine (lo stato è necessariamente assente, in questi casi. La percezione dell'insicurezza è la percezione della rottura dell'unità simbolica del proprio luogo; l'insicurezza è lo spaesamento del cittadino che, perso ogni legame comunitario che aveva caratterizzato un certo periodo della nostra vicenda democratica, si trova a non uscire per strada la sera perchè non riconosce più la sua città: per l'impatto con l'altro, senza avere alcuna categoria per interagirvi- ma letto attraverso la categoria del delinquente, del pericoloso, del rumoroso, dell'ubriaco, dello sporco. Lo stato, se non costruendo un ghetto, in questi casi non può intervenire. Costruire ghetti si può: cosa è, per esempio, urbino2? Ma se non si vede, il problema non c'è e la soluzione non serve).

Un'analisi della mitologia politica dei giovani fascisti, che non si fermi al livello dell'indignazione, ci può permettere di analizzare il sistema di valori che accompagna le loro scelte, che definisce la loro identità. I vuoti e le contraddizioni rivelate da tale analisi ci spingono a condurre la nostra indagine sui processi di soggettivazione che creano l'identità fascista. Come abbiamo già detto, tale mitologia appare un guazzabuglio di posizioni difficilmente conciliabili. A tenerne l'unità, forse, è la volontà preponderante di collocarsi al di fuori di uno spazio simbolico le cui contraddizioni vengono cassate rapidamente con una attribuzione di sostanziale impurità, alla quale ci si contrappone, con spirito eroico, con l'Onore della scelta identitaria.Lla scelta identitaria fascista si presta particolarmete a tale affermazione di sè attraverso la rimozione dei vincoli contraddittori intrattenuti con l'altro: l'identità fascista viene ripresa con riferimento alle "due otre cose buone" di cui si è accennato, ma tali elementi non vengono mai separati dalla totalità dell'esperienza fascista e dall'identificazione con la sua retorica. Come suggerisce Antonio Pennacchi in "che ne sai tu del lupo cattivo?" (in "nazirock" pubblicato da feltrinelli nel 2008) l'assunzione dell'identità fascista va riconosciuta come un'assunzione del ruolo di capro epiatorio metastorico e volontario; si scorge in essa il frutto di una difficoltà di metabolizzazione del lutto, assunta e idealizzata come collante identitario. La difficoltà di elaborazione del lutto che i giovani fascisti sperimentano nei confronti del fascismo storico, sarebbe alla base di questo processo autonecrofilo, consistente nel voler perpetrare oggi, settant'anni dopo, il ruolo di capro espiatorio che assunsero i ragazzi di salò nei confronti del Popolo Italiano. Tale meccanismo depressivo porta i giovani antifascisti a non poter definire compiutamente una propria identità che sia scevra da contraddizioni e a risolversi in niente più che anti-antifascisti; essi, cioè, finiscono per mischiare elementi identitari confusi e inconciliabili, assolutamente non costruttivi rispetto alla situazione sociale e storica, solo per negare una retorica antifascista che, se da una parte non rende necessaria giustizia alla complessità del fenomeno fascista, dall'altra essi finiscono per assumenre in toto solo al fine di riaffermarla positivamente. Così, in qualità di capri espiatori volontari, sempre tali al di là delle epoche della storia repubblicana, loro vedono confermata nei fatti la loro purezza, la loro giustizia, senza dover sottoporre ad ulteriore critica i loro valori - ma evidentemente condannati a non poter mai sperimentare un processo di crescita attraverso negazioni e riconoscimenti dialettici. E' un fenomeno che interessa l'intera comunità politica, storicamente impegnata nella costruzione di un mito di fondazione democratica attraverso la resistenza e l'antifascismo, sull'altare del quale ha dovuto sacrificare i militanti di salò, gli ultimi convinti assertori del fascismo nel contesto della disfatta nazionale, che per sineddoche sono passati ad indicare tutti i fascisti, tutto il fascismo che, anche tra i buoni cittadini antifascisti, è stato tranquillamente accolto lungo un ventennio. Il sistema democratico che ha operato tale sineddoche vittimaria, giustificando la totalità del cuo corpo a spese di una minoranza di ragazzi che hanno mantenuto l'onore della patria dalla parte sbagliata, forse non ha saputo sostanziare di verità effettiva il mito che ha costruito in questo sacrificio fondativo, lasciando a morire sulla carta l'impegno per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Anzi, le soggettività politiche che avevano celebrato quel rito costituente sono oggi svuotate e obsolete, poichè i nuovi modelli di inclusione ed esclusione nella società non ricalcano più i cleavages storici della società industriale del novecento, sui quali si erano costruiti miti politici progressivi ed emancipatori. La politica, assurta a sistema di governamentalità, rifiuta di rappresentare il conflitto - creatore di valori - ritenendo che tale dinamica sia "novecentesca", legata ad un'idea superata di società. Oggi la politica governamentale accomuna la destra e la sinistra in un alveo di indistinguibilità in cui l'unico slogan, la sicurezza, funziona come centro oscuro che ricopre tutto il corpo politico, in cui ogni cittadino è potenzialmente un terrorista e viene sottoposto agli stessi controlli biometrici un tempo riservati ai criminali recidivi dal potere esecutivo.

E' una situazione in cui stato normale e stato di eccezione vengono a coincidere. Quando non c'è una rappresentazione del conflitto nel sistema politico, questo si ridisloca sui nuovi confini dell'esclusione. Coloro che sono al di là di tali confini sono i corpi eccepiti dal sistema politico delle società occidentali, presi fuori - un esempio su tutti gli stranieri, condannati ad una posizione di costante marginalità creata dalle norme restrittive (che tendono a crearli immediatamente come devianti) e dall'organizzazione del lavoro; gli stranieri sono sempre possibili oggetti della ferocia della massa nazionale, sempre possibili pharmakoi, rispetto ai quali la nostra società lascia le porte socchiuse - un esplicito invito che non implica il dovere dell'accoglienza (c. m. bellei, "la comunità nuda", 2008)

Come da lunga tradizione, il fascismo serve a mantenere uno stato di eccezione nel sistema democratico liberale, per governare la partecipazione popolare e tenere a bada le soggettività sociali e politiche potenzialmente disgreganti. Oggi lo stato di eccezione indistinguibile dallo stato normale è il frutto del processo biopolitico occidentale: nelle democrazie borghesi, la rivendicazione della vita biologica come diritto, come unico carico di cui la politica è portatore, porta al primato del privato sul pubblico e delle libertà individuali sugli obblighi collettivi. Lo spazio politico non è più assimilabile a quello della polis ma funziona come l'oikos collettivo pienamente realizzato - tale oikos non è il luogo realizzato della comunità ma uno stato di indistinzione tra diritto e forza, in cui il modello di inclusione è la spettanza, l'esclusione è data dall'impurità.

Dove le linee di demarcazione interna sono incerte, dove le soggettività politiche sono sbiadite a vantaggio di una comunità domestica gestita dall'economia, in cui gli idividui sono tali in quanto delegano la gestione della vita biologica alla tecnica e ai centri di potere che la tecnica utilizzano, vengono in aiuto le idee di contaminazione per definire la struttra sociale. La purezza è la piena gestione del sè attribuita ai prodotti, l'impurità e data da uno scarso accesso alle possibilità di delegare la gestione della vita biologica a tali sistemi tecnico-mercantili. Ma la totale indistinzione tra norma e stato d'eccezione significa anche che il potere governamentale non è più espressione di alcun potere costituente in cui il popolo - categoria rischiosa e surrettiziamente unitaria - possa riconoscere se stesso, nel quale posssa realizzarsi la lotta tra forze che pongono i valori. Ciascuno sa di potersi sapere buono se crede in un sistema di potere che lo difenda dalla paura di avere paura; gli agenti della paura sono disseminati qua e la in ogni sistema sociale. Sono i neofascisti, le ronde leghiste, le subculture mafiose, i poliziotti esaltati. La sovranità non può esercitare direttamente questa inoculazione di paura senza rompere la rappresentazione armonica della spettanza, nella quale la politica è governo di una massa di individui, perfetti giudici dei propri interessi e imperiosi esattori di sicurezza, indifferentemente alla forma del regime politico stesso. Tali agenti di paura, tali vigilantes della rappresentazione spettacolare e vuota non hanno alcuna regola di ingaggio: la loro marginalità basta a fare in modo che essi adottino un modello di giudizio della sporcizia, un sistema di categorie di contaminazione che autoproduca le proprie istanze e le proprie soddisfazioni (quando qualcuno esagera, o sbaglia bersaglio, il sistema si riorganizza sacrificando qualche ragazzino sull'altare dell'ordinamento giuridico-spettacolare). Le categorie di impurità colpiscono chi deve essere colpito, nella maggior parte dei casi (immigrati, rom, individui che non consumano, non votano, non guardano la televisione, sporcano, rompono l'unità del luogo di consumo, devono restarsene nel loro ghetto, devono sapere di essere sotto controllo); la violenza di questi agenti della paura socializza i giovani dei loro quartieri; si autoriproduce con la forza del "meglio starsene tranquilli". E' un modello di trasmissione di cultura in cui nuovi giovani proletari saranno presi, perderanno ogni possibilità di emanciparsi, saranno puri operatori di purezza.

Perchè un potere (leader per nulla marginali nel sistema politico, emersi spaventosamente indenni da scabrose vicende giudiziarie, legati a doppio filo alla più pervasiva classe dirigente degli ultimi anni) incanala in un ribellismo marginale e assolutamente non-dialettico una massa di corpi esplosivi, la cui energia vive delle tensioni di un modello produttivo escludente e contraddittorio. Questi corpi esplosivi ed energici sono gli esclusi dai modelli accomodanti del sistema occidentale; la socializzazione politica che su di essi viene applicata ne spegne ogni possibilità rivoluzionaria. Il potere scrive sui loro corpi le svastiche e la retorica che li tiene sotto controllo; un giovane proletariato non assimilato dalla democrazia del consumo, potenzialmente sovversivo e destrutturante, viene ricondotto dentro le forme di funzionamento della rappresentazione del potere, viene portato ad essere la guardia armata della sua purezza. I neofascisti, inoculati di violenza, sono disposti sulla scena urbana a ricordare la paura che bisogna aver paura di avere.

E la nostra retorica umanistica e antifascista è colpevole; il nostro discorso antifascista, figlio di un mito democratico con cui non riusciamo più ad interagire criticamente, contribuisce a creare questi soggetti. Non sono in grado di fare alcuna marcia su roma; l'ordinamento giuridico del fascismo sarebbe incompatibile dcon le mutate condizioni economiche, sociali, tecnologiche; non c'è pericolo, siamo al sicuro. Guardiamo questi giovani esaltati e continuiamo ad usarli per sentirci migliori, democratici, liberali, di sinistra. E non ci rendiamo conto di ciò in cui ci siamo.

Questa storia non è nuova. Pasolini ammoniva i suoi contemporanei mostrando la barbarie del nuovo fascismo dei consumi. Il potere omologante dello Sviluppo, devastate le culture contadine, espressive, del popolo ormai assimilato dalla falsa liberazione edonistica del boom economico, genera contraddittori episodi di ribellismo disperato, afasico, irrazionalistico. Mentre i giovani del sessantotto isolano la loro protesta in un ambito autoreferenziale, che li sottrae ad ogni possibilità di interagire dialetticamente con i loro padri borghesi, la classe politica dominante nasconde la propria inettitudine dietro la retorica umanistica dell'antifascismo. Tale antifascismo è inutile contro il novo fascismo dei consumi, lontano dalla retorica umanistica del ventennio ma piuttosto orientato a un pragmatismo pervasivo e violento nella sua falsa tolleranza, volto alla "riorganizzazione e l'omologazione brutalmente totalitaria del mondo". La retorica antifascista dei dirigenti borghesi serve a nascondere le connivenze con le stragi, con i provocatori, cpn i giovani teppisti manovrati dai servizi segreti. Pasolini scrive:

"non abbiamo fatto nulla perchè i fascisti non ci fossero. li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l'indignazione più tranquilla era la coscienza.

in realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente ad essere faascisti, e di fronte a questa decisione del destino non ci fosse niente da fare. e non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastataforse una sola parola perchè ciò non accadesse. ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. e magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell'orrenda avventura per semplice disperazione.

ma non potevamo distinguerli dagli altri (non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri). è questa la nostra spaventosa giustificazione."

(24 giugno 1974, sul "corriere della sera" con il titolo "il Potere senza volto". ora in "Scritti Corsari")

da queste righe il grido di dolore di Pasolini ancora ci appella.

21 nov 2009

L'EDITORIALE - una storiella scritta e disegnata da luca negrogno

























transpolitico



La postdemocrazia è

il paradosso che fa valere, sotto il nome di democrazia, la pratica consensuale di annullamento delle forme dell'agire democratico. La postdemocrazia è la pratica governamentale e la legittimazione concettuale di una democrazia post demos, una democrazia che ha eliminato l'apparenza, il resoconto e il conflitto del popolo ed è dunque riducibile al solo gioco dei dispositivi statali e delle mediazioni tra energie e interessi sociali. La postdemocrazia non è una democrazia che ha trovato nel gioco delle energie sociali la verità delle forme istituzionali. E' una modalità di identificazione, tra i dispositivi istituzionali e la disposizione tra parti e parti della società, capace di far scomparire l'oggetto e l'agire tipici della democrazia. Si identifica con la pratica e la riflessione intorno a un completo adeguamento tra le forme dello Stato e lo stato delle relazioni sociali. (...)

E' la scomparsa del dispositivo dell'apparenza e del resoconto conflittuale innescati dal nome del popolo e dallo spazio vuoto della sua libertà. (1)

A questo spazio della rappresentazione conflittuale si oppone il mondo "in cui tutto si vede". La postdemocrazia viene immunizzata dall'apparenza decodificante del popolo attraverso l'instaurazione del regime dell'opinione, l'identificazione tra ogni parte della società e la sua più propria identità, prodotta dal dispositivo di sondaggio costante che armonizza il conto delle parti all'immagine del tutto. Attraverso il dispositivo che rende l'opinione pubblica sempre presente a se stessa come comunità realizzata attraverso la "parola libera" (anzi, più che libera: richiesta, sollecitata e incanalata nella prestazione binaria di una risposta determinata dal codice della domanda), dell'espressione dell'opinione, il popolo perviene all'ultima forma di visibilità totale che si identifica con la sua assenza. E' questo il regime transpolitico che Baudrillard definisce "oscenità", il più vero del vero, la fine di ogni gioco possibilmente conflittuale di rappresentazione. Nella visibilità globale l'apparenza, il luogo privilegiato del conflitto sulla aisthesis, non ha luogo di manifestarsi, una volta che il reale è pervenuto alla identità con se stesso. Come "regime omogeneo del visibile", quello che ci si presenta è una "polizia realizzata", dal momento che ogni parte della società è indagata e spinta a manifestare senza scarti la più profonda verità nella "realtà simulata" del regime dell'opinione. Quando parliamo di realtà simulata, indichiamo la proliferazione mediatica del sondaggio, in cui si realizza il "regime dell'opinione", che è la forma di visibilità a se stessa della comunità attraverso cui è per sempre realizzato l'occultamento della forma della separazione che costituisce nella sua più profonda essenza lo spettacolo. La separazione, la prestazione primitiva del potere che perviene alla sua forma autocosciente nello spettacolo, realizzazione della merce come feticcio, è ormai totalmente ricomposta nel momento in cui il postdemos è costantemente presente a se stesso nell'identità tautologica del reale con se stesso. La "simulazione" del popolo pienamente evidente si realizza come una metapolitica rovesciata, dal momento che in essa è organizzato senza scarto il rispecchiamento dell'opinione in se stessa, "identica alla effettività del popolo sovrano e alla conoscenza scientifica dei comportamenti di una popolazione", vale a dire dei suoi bisogni e dei suoi desideri.

Il popolo è identico alla somma delle sue parti. La sommatoria delle sue opinioni è uguale alla somma delle parti che lo costituiscono. Il conto è sempre pari, senza avanzo. E questo popolo assolutamente uguale a sé è anche sempre scomponibile nel suo reale: le sue categorie socio-professionali e le sue classi d'età. Non può dunque verificarsi nulla sotto il nome di popolo, se non il computo delle opinioni e degli interessi delle sue parti, perfettamente computabili. (2)

Così, la massima istanza politica dell'uguaglianza di ciascuno con chiunque è scomposta nella nuda vita dei cittadini e, attraverso la rappresentazione, realizzata nel corpo sovrano; nel momento in cui il popolo sovrano si realizza come costante presenza a sé dell'opinione aggregata degli individui, viene meno la possibilità di individuare uno scarto metapolitico e archipolitico tra gli omonimi di "popolo" e l'uguaglianza si realizza sussumendo archipolitica e metapolitica nella sua forma poliziesca. L'uguaglianza viene ora dalla possibile scomposizione empirica del popolo nelle sue parti, di quel popolo sovrano che ha pienamente realizzato la sua sovranità attraverso la "scienza dell'opinione". La scienza dell'opinione, infatti, non è solo l'organizzazione oggettiva del sondaggio che scompone empiricamente il popolo in categorie pronte ad esprimere la loro più profonda verità, ma è anche il mediatore ufficiale della totale identità tra opinione e diritto. Il "fare politico", nelle postdemocrazie, si configura infatti come tendenziale adeguamento dello "stato di diritto" al regime dell'opinione; questa è la forma ultima di legittimazione democratica. Questo è possibile in virtù di un'altra e più profonda configurazione della "scienza dell'opinione" come piena realizzazione e assoluzione moderna del platonismo.

La scienza dell'opinione non è, infatti, soltanto la scienza che trova nell'opinione il suo oggetto. E' la scienza che si realizza immediatamente come opinione, la scienza che ha senso soltanto in quel processo speculare per cui un'opinione si vede riflessa nello specchio della sua identità che la scienza le tende. L'unità senza resti del popolo sovrano, della popolazione empirica e della popolazione scientificamente riconosciuta, è anche l'identità tra l'opinione e la sua antica rivale platonica, la scienza. Il regno della "simulazione" non è dunque la rovina della metafisica e dell'archipolitica platoniche, ma la paradossale attuazione del loro programma: la comunità governata dalla scienza, che sistema ciascuno al suo posto, con l'opinione a esso più opportuna. La scienza delle simulazioni dell'opinione è la perfetta realizzazione della virtù vuota che Platone chiamava sophrosunè: il fatto che ciascuno stia al proprio posto, vi svolga i propri affari, abbia l'opinione corrispondente al fatto di appartenere a quel posto, e al fatto di svolgere solo le mansioni che deve svolgere. Questa virtù di identità, per Platone, presupponeva che i simulacri degli specchi e dei burattinai venissero cacciati dalla città. Ma nello specchio offerto all'opinione dalla scienza dell'opinione, appare che opinione può diventare il nome stesso dell'essere al proprio posto, che la specularità può diventare il regime di interiorità in grado di rimandare a ogni cittadino e a ogni parte delle comunità l'immagine autentica di ciò che sono. (3)

Nel momento in cui uno specifico regime di organizzazione del sensibile realizza, attraverso la mediazione del popolo totalmente visibile a se stesso, la piena rispondenza a sé dell'identità di ciascuno, ogni apparizione di conflitto viene scongiurata attraverso la gestione dello spazio, diventato folle, del possibile conflitto. Tale spazio è tematizzato come "problema", preferibilmente attraverso la definizione paradossale di "problema concreto", attraverso delle categorie concettuali che assorbono e predeterminano ogni possibile apparizione del conflitto incanalandole nella pre-comprensione gestionale. Per scongiurare l'apparenza della divisione in seno al popolo ormai pervenuto alla piena unità con se stesso, si producono le megacategorie che inseriscono ogni possibile spazio di conflitto in una "definizione oggettiva del problema" che esclude rigorosamente ogni possibilità di tematizzazione politica e conflittuale del fatto. Questa forma di organizzazione dell'aisthesis, la cui struttura sarà particolarmente evidente nell'analisi del "dispositivo di razzismo" che interessa in modo particolarmente rilevante le società postdemocratiche, realizza all'interno delle singole unità significanti quella forma campo di cui abbiamo parlato come unica possibile localizzazione del nomos in uno spazio sociale omogeneo, in cui fatto e diritto sono divenuti indistinguibili, in cui al linguaggio è tolta ogni possibilità di rappresentazione conflittuale.

Già Heidegger aveva visto che sotto la piena oggettivazione del rapporto tra l'esserci e l'ente nel "si", si gioca e si occulta una possibilità radicale di conflitto, un conflitto totalizzante che sempre si ri-vela nell'equivocità dell'esser-nel-mondo linguistico:

L'esser-'l'uno con l'altro' nel si non è affatto un essere l'uno accanto all'altro, in sé concluso e indifferente ma è, anzi, un teso ed equivocante badare l'uno all'altro, un furtivo reciproco orecchiarsi. Sotto la maschera dell'uno per l'altro si recita la parte dell'uno contro l'altro. (4)

Con la realizzazione piena e la scomposizione del si nell'identità pienamente trasparente di ciascuno con se stesso, raggiunge un livello parossistico di quella che Heidegger definisce precomprensione: non c'è alcun "fatto" che possa dare luogo ad un inserimento potenzialmente conflittuale in categorie di senso, ma la creazione di iper-categorie in cui riposa la potenza di fatti-già-da-sempre-compresi, già totalmente assorbiti nella precisa articolazione dell'apparato che identifica regime dell'opinione e stato di diritto, fornendo la prestazione governamentale più appropriata al fatto che cade nella categoria in questione. La iper-categoria della precomprensione parossistica è estremamente fluida, disarticolata, ma già così a fondo compresa perché porta già in se la opportuna risposta istituzionale, la gestione del fatto come problema oggettivato in una specifica prestazione del kratos, il quale non è più kratos ma articolazione del mero possibile. L'unica risposta valida ad un problema è l'unica oggettivamente possibile. Questo stato di fatto potenziale inglobato dentro una categoria fluida ma già compresa in cui si saldano indissolubilmente opinione e diritto, esaurisce totalmente in sé ogni possibile narrazione. Il computo della "cadenza" dei fatti diviene l'unico modo dei fatti di darsi. Poiché ogni iper-categoria è un preciso dispositivo produttore di "oggettività", nel quale si saldano in una prestazione particolare tensioni specifiche del rapporto tra opinione e stato di diritto, bisogna tener presente che ogni "oggettività" così prodotta porta sempre dietro il residuo di una ambivalenza, della possibile conflittualità che ha rotto e immunizzato. Questa tensione apparirà particolarmente evidente nella prestazione del "dispositivo di razzismo" come articolazione dell'identità della comunità con sé attraverso il sentimento, contrapposta alla prestazione del diritto che può legittimarsi solo come gestione oggettiva. Ma già ora possiamo vedere che questa specifica funzione del linguaggio postdemocratico può mantenersi solo costruendo

l'utopia di un capitale illimitato di linguaggio come valore d'uso e valore di scambio. Ognuno, per significare, procede per accumulazione e scambio cumulativo di significanti la cui verità è altrove. (...) questo "consumo" discorsivo, sul quale non cala mai lo spettro della penuria, questa manipolazione scialacquatrice, sostenuta dall'immaginario della profusione, porta ad un'inflazione prodigiosa che lascia, immagine delle nostre società a crescita incontrollata, un residuo altrettanto prodigioso, un rifiuto non degradabile di significanti usati, ma mai consumati. Perché le parole che sono servite non si volatilizzano, s'accumulano come un rifiuto - inquinamento segnico (...). (5)

(1), (2), (3) - Jacques Ranciere, "Il disaccordo"
(4) - Martin Heidegger, "Essere e tempo § L'equivocità"
(5) - Jean Baudrillard, "Lo scambio simbolico e la morte"

16 nov 2009

siamo costretti

Nell'Europa dei 27 l'Italia è tra i paesi con il numero più alto di poliziotti penitenziari in termini assoluti e relativi. Se si considera l'attuale numero di detenuti - 65 mila circa - in Italia abbiamo un poliziotto penitenziario ogni 1,54 detenuti. La media europea è di 2,94. Sono 42.268 i poliziotti penitenziari in organico. 39.482 sono i poliziotti che lavorano effettivamente per l'amministrazione penitenziaria al netto di distacchi e assenze di vario tipo. Tra le situazioni regionali di maggiore disagio vanno segnalate quelle del Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Sardegna. Posto che circa 1500/1800 agenti svolgono compiti anche di natura contabile, che circa 700 agenti lavorano negli spacci, che circa 4/5000 uomini sono giornalmente impegnati nei servizi di traduzione e piantonamento dei detenuti fuori dalle strutture penitenziarie, che circa 500 agenti lavorano al ministero della Giustizia, che circa 1600 agenti lavorano al Dap, che varie migliaia sono impegnate nei Provveditorati regionali, nelle Scuole di formazione, agli U.e.p.e., al Gom - Gruppo operativo mobile-, al N.i.c. - Nucleo centrale investigazioni, all'U.s.p.e.v. Ufficio per la sicurezza del personale e della vigilanza, al Servizio centrale delle traduzioni e piantonamenti, con annessa la sezione relativa al Servizio polizia stradale, fuori dall'amministrazione penitenziaria (Corte dei conti, Presidenza consiglio dei ministri, Csm, ministeri diversi) ne restano a spanne 16 mila che si sobbarcano il lavoro atto a garantire la sicurezza complessiva nelle carceri. Per un sud che non ha carenze di organico - anzi - vi è un nord dove la situazione è drammatica (a Padova nuovo complesso mancano 78 unità, a Tolmezzo 38, a Torino 187, a Brescia 155).


ilmanifesto

biopolitica

di Marco Mancassola
Lo spettacolo dei corpi
Come sarà ricordato negli annali il 2009 italiano? Potrà essere ricordato come «anno del corpo». Si tratta di una facile profezia se pensiamo ai maggiori scandali di quest'anno: dal processo-celebrazione del corpo del Capo, le cui prestazioni hanno solleticato per mesi la coscienza degli italiani; alle fotografie del povero corpo di un ragazzo martoriato in carcere; fino alle polemiche sul corpo più rappresentativo della nostra tradizione, quello appeso a una croce e onnipresente, nel bene o nel male, nei nostri uffici pubblici.
L'anno che si avvia a concludersi sarà anzitutto ricordato come quello in cui la politica italiana sembrò americanizzarsi, segnando l'ingresso dello scandalo sessuale nel ring dello scontro politico. Sarà ricordato come l'anno in cui molte donne tornarono a interrogarsi davanti all'ormai esplicita, grottesca piega maschilista presa dalla società politica, nonché dalla coincidente società dello spettacolo. Se gli storici del futuro saranno spiritosi, perché no, sarà ricordato come l'anno in cui la penisola italiana smise di somigliare a uno stivale per prendere la forma di un gigantesco pene, gibboso e biforcuto: quello del capo ma anche la sua controparte esotica, a quanto pare non meno ossessionante per molti italiani, rappresentata dal pene del trans.
Nel corso di questo anno ci sono stati dibattiti sull'opportunità di fondare analisi politiche in base a simili vicende. Sarà ricordato, dunque, anche come l'anno in cui tutti ci siamo chiesti, una volta per tutte, quale sia il confine tra pubblico e personale, tra corpo politico e corpo intimo. Più di qualcuno ha detto che scavare troppo nell'intimo del capo è controproducente, un tentativo destinato a ritorcersi contro tutti, proprio come dimostrato dalla vicenda Marrazzo. La vita erotica dei presidenti sarebbe un rischioso vaso di Pandora.
Un tempo i politici italiani parevano senza corpo. Ma poi vennero gli anni Ottanta e da allora, sempre più, la società italiana si è basata su uno straordinario incastro. Il fantasma sessuale come fondamento del dominante spettacolo, e lo spettacolo come fondamento del dominante potere politico: sicché, quando il cerchio si chiude, diventa forse inevitabile interrogarsi sulla sessualità del potere, sulle contraddizioni che essa rivela. Il cortocircuito tra immaginario, tecniche del potere e allusione sessuale non è un'esclusiva italiana, ma ha raggiunto in Italia il suo livello estremo. Era dunque destinato a venire in primo piano e lo ha fatto in questo fatidico anno.
Di mezzo non ci sono solo i corpi dei politici e non solo le questioni del sesso. Sempre più il corpo sarà campo di battaglia e senza sosta saremo chiamati a riflettere sulla nostra dimensione fisica, sul nostro essere più o meno liberi, sulla nostra capacità di vivere il corpo in modo il più possibile trasparente, ovvero in un modo che non ci renda ricattabili. L'«anno del corpo» ci renda più consapevoli.
Ma perché i discorsi sul corpo diventano tanto centrali? Per motivi che vanno oltre le solite ossessioni vaticane. Perché l'avanzare delle biotecnologie mette in subbuglio le biopolitiche; perché nel gioco contemporaneo ci sentiamo sempre più relegati al ruolo di cose intercambiabili; perché di fronte al tramonto di ogni orizzonte di senso condiviso, il corpo è tutto ciò che resta, unico sintomo della nostra incerta presenza. Molti possono essere i motivi, non ultimo il trovarci a vivere nostro malgrado nello spettacolo totale. Ovvero in quella dimensione in cui la realtà ha sempre meno l'aroma della realtà, dove ognuno si sente obbligato a dare spettacolo di se stesso dentro e fuori la rete, dove tutto, i nostri discorsi, i nostri incontri, i nostri gesti, sembra uscire dal copione di uno scadente show. In questo copione, la scena erotica è pur sempre la scena clou; il nostro corpo è il principale mezzo di performance.
Questa svolta percettiva, da tempo segnalata da vari studiosi, riguarda le generazioni giovani e non solo. Di fronte a essa il dolore dei corpi, con il suo realissimo dramma, irrompe come un imbarazzante problema, catalizzando attenzione spettacolare molto prima che umana pietà. A questo riguardo possiamo capire il dilemma di scelte come quella di Beppino Englaro, che decise di non diffondere le foto del corpo della figlia in stato vegetativo, di non immetterle cioè nel circolo mediatico dello spettacolo, pur sapendo che questo avrebbe forse aiutato la sua causa; o della famiglia di Stefano Cucchi, che ha invece diffuso le immagini del corpo massacrato del figlio, nonostante i pericoli dello spettacolo, proprio per ottenere l'appoggio dell'opinione pubblica.
A proposito di pietà. Giunti a questo punto, potremmo rivolgere la nostra al povero cadavere della gioventù italiana. Quella gioventù ormai compresa nell'arco di due significativi poli. Da una parte la gioventù massacrata per strada o nelle carceri, picchiata alle manifestazioni studentesche, fisicamente minacciata dal potere poliziesco; dall'altra la gioventù esposta nei reality show come un pesce in un acquario, spogliata di ogni prerogativa al di là del flebile raggio di sex-appeal che ancora emette, ridotta a fonte di brividi voyeuristici per la gerontocrazia italiana. Queste sembrano le alternative offerte, i due poli all'orizzonte. Chiunque non si adegua ai codici del regime dello spettacolo può aspettarsi di finire massacrato.
Infine, per concludere, la nostra pietà andrebbe magari rivolta anche al corpo che più di tutti è stato mille volte strumentalizzato. Mille volte tradito, ridotto a feticcio, negato nel suo significato profondo: che siamo cristiani o no, il corpo appeso alla croce descrive in modo singolare il dramma fisico in cui oggi siamo tutti immersi. La polemica su questo corpo è corollario perfetto dell'«anno del corpo». Risulta paradossale che i meccanismi finora descritti tocchino il loro livello estremo in un paese che per tradizione dichiara di identificarsi nel corpo crocifisso: non fosse tragica, una tale ipocrisia meriterebbe una sonora risata. Chissà se i cattofascisti che tanto si infervorano hanno mai davvero sollevato gli occhi verso quel corpo. Avranno mai sollevato gli occhi verso qualunque corpo?
Appesa a quella croce c'è un'umanità che accetta l'esperienza fisica, compresa quella indicibile del dolore, per esserne trasformata fino a proclamare la resurrezione spirituale per il credente, o una nuova uguaglianza tra gli uomini per il laico. Si può essere più o meno vicini alla centralità del dolore nel messaggio cristiano. Ma al di là del falso problema del restare nelle aule, si può supporre che questo simbolo suggerisca un ruolo del corpo assai diverso da quello del regime dello spettacolo in cui viviamo. Un corpo che serve a incontrare l'altro e non a utilizzarlo. A ricevere e concedere pietà e non mercificazione. Un corpo che è continua trasformazione e non sterile esibizione. Viviamo in un'epoca in cui pensiamo di conoscere tutto sul sesso, sul dolore, sul corpo, ma la realtà è che rischiamo di conoscere sempre meno e che abbiamo bisogno di essere molto saldi e presenti, nelle nostre esperienze, in questa strana avventura che è la «repubblica dei corpi italiani».




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