21 nov 2009

transpolitico



La postdemocrazia è

il paradosso che fa valere, sotto il nome di democrazia, la pratica consensuale di annullamento delle forme dell'agire democratico. La postdemocrazia è la pratica governamentale e la legittimazione concettuale di una democrazia post demos, una democrazia che ha eliminato l'apparenza, il resoconto e il conflitto del popolo ed è dunque riducibile al solo gioco dei dispositivi statali e delle mediazioni tra energie e interessi sociali. La postdemocrazia non è una democrazia che ha trovato nel gioco delle energie sociali la verità delle forme istituzionali. E' una modalità di identificazione, tra i dispositivi istituzionali e la disposizione tra parti e parti della società, capace di far scomparire l'oggetto e l'agire tipici della democrazia. Si identifica con la pratica e la riflessione intorno a un completo adeguamento tra le forme dello Stato e lo stato delle relazioni sociali. (...)

E' la scomparsa del dispositivo dell'apparenza e del resoconto conflittuale innescati dal nome del popolo e dallo spazio vuoto della sua libertà. (1)

A questo spazio della rappresentazione conflittuale si oppone il mondo "in cui tutto si vede". La postdemocrazia viene immunizzata dall'apparenza decodificante del popolo attraverso l'instaurazione del regime dell'opinione, l'identificazione tra ogni parte della società e la sua più propria identità, prodotta dal dispositivo di sondaggio costante che armonizza il conto delle parti all'immagine del tutto. Attraverso il dispositivo che rende l'opinione pubblica sempre presente a se stessa come comunità realizzata attraverso la "parola libera" (anzi, più che libera: richiesta, sollecitata e incanalata nella prestazione binaria di una risposta determinata dal codice della domanda), dell'espressione dell'opinione, il popolo perviene all'ultima forma di visibilità totale che si identifica con la sua assenza. E' questo il regime transpolitico che Baudrillard definisce "oscenità", il più vero del vero, la fine di ogni gioco possibilmente conflittuale di rappresentazione. Nella visibilità globale l'apparenza, il luogo privilegiato del conflitto sulla aisthesis, non ha luogo di manifestarsi, una volta che il reale è pervenuto alla identità con se stesso. Come "regime omogeneo del visibile", quello che ci si presenta è una "polizia realizzata", dal momento che ogni parte della società è indagata e spinta a manifestare senza scarti la più profonda verità nella "realtà simulata" del regime dell'opinione. Quando parliamo di realtà simulata, indichiamo la proliferazione mediatica del sondaggio, in cui si realizza il "regime dell'opinione", che è la forma di visibilità a se stessa della comunità attraverso cui è per sempre realizzato l'occultamento della forma della separazione che costituisce nella sua più profonda essenza lo spettacolo. La separazione, la prestazione primitiva del potere che perviene alla sua forma autocosciente nello spettacolo, realizzazione della merce come feticcio, è ormai totalmente ricomposta nel momento in cui il postdemos è costantemente presente a se stesso nell'identità tautologica del reale con se stesso. La "simulazione" del popolo pienamente evidente si realizza come una metapolitica rovesciata, dal momento che in essa è organizzato senza scarto il rispecchiamento dell'opinione in se stessa, "identica alla effettività del popolo sovrano e alla conoscenza scientifica dei comportamenti di una popolazione", vale a dire dei suoi bisogni e dei suoi desideri.

Il popolo è identico alla somma delle sue parti. La sommatoria delle sue opinioni è uguale alla somma delle parti che lo costituiscono. Il conto è sempre pari, senza avanzo. E questo popolo assolutamente uguale a sé è anche sempre scomponibile nel suo reale: le sue categorie socio-professionali e le sue classi d'età. Non può dunque verificarsi nulla sotto il nome di popolo, se non il computo delle opinioni e degli interessi delle sue parti, perfettamente computabili. (2)

Così, la massima istanza politica dell'uguaglianza di ciascuno con chiunque è scomposta nella nuda vita dei cittadini e, attraverso la rappresentazione, realizzata nel corpo sovrano; nel momento in cui il popolo sovrano si realizza come costante presenza a sé dell'opinione aggregata degli individui, viene meno la possibilità di individuare uno scarto metapolitico e archipolitico tra gli omonimi di "popolo" e l'uguaglianza si realizza sussumendo archipolitica e metapolitica nella sua forma poliziesca. L'uguaglianza viene ora dalla possibile scomposizione empirica del popolo nelle sue parti, di quel popolo sovrano che ha pienamente realizzato la sua sovranità attraverso la "scienza dell'opinione". La scienza dell'opinione, infatti, non è solo l'organizzazione oggettiva del sondaggio che scompone empiricamente il popolo in categorie pronte ad esprimere la loro più profonda verità, ma è anche il mediatore ufficiale della totale identità tra opinione e diritto. Il "fare politico", nelle postdemocrazie, si configura infatti come tendenziale adeguamento dello "stato di diritto" al regime dell'opinione; questa è la forma ultima di legittimazione democratica. Questo è possibile in virtù di un'altra e più profonda configurazione della "scienza dell'opinione" come piena realizzazione e assoluzione moderna del platonismo.

La scienza dell'opinione non è, infatti, soltanto la scienza che trova nell'opinione il suo oggetto. E' la scienza che si realizza immediatamente come opinione, la scienza che ha senso soltanto in quel processo speculare per cui un'opinione si vede riflessa nello specchio della sua identità che la scienza le tende. L'unità senza resti del popolo sovrano, della popolazione empirica e della popolazione scientificamente riconosciuta, è anche l'identità tra l'opinione e la sua antica rivale platonica, la scienza. Il regno della "simulazione" non è dunque la rovina della metafisica e dell'archipolitica platoniche, ma la paradossale attuazione del loro programma: la comunità governata dalla scienza, che sistema ciascuno al suo posto, con l'opinione a esso più opportuna. La scienza delle simulazioni dell'opinione è la perfetta realizzazione della virtù vuota che Platone chiamava sophrosunè: il fatto che ciascuno stia al proprio posto, vi svolga i propri affari, abbia l'opinione corrispondente al fatto di appartenere a quel posto, e al fatto di svolgere solo le mansioni che deve svolgere. Questa virtù di identità, per Platone, presupponeva che i simulacri degli specchi e dei burattinai venissero cacciati dalla città. Ma nello specchio offerto all'opinione dalla scienza dell'opinione, appare che opinione può diventare il nome stesso dell'essere al proprio posto, che la specularità può diventare il regime di interiorità in grado di rimandare a ogni cittadino e a ogni parte delle comunità l'immagine autentica di ciò che sono. (3)

Nel momento in cui uno specifico regime di organizzazione del sensibile realizza, attraverso la mediazione del popolo totalmente visibile a se stesso, la piena rispondenza a sé dell'identità di ciascuno, ogni apparizione di conflitto viene scongiurata attraverso la gestione dello spazio, diventato folle, del possibile conflitto. Tale spazio è tematizzato come "problema", preferibilmente attraverso la definizione paradossale di "problema concreto", attraverso delle categorie concettuali che assorbono e predeterminano ogni possibile apparizione del conflitto incanalandole nella pre-comprensione gestionale. Per scongiurare l'apparenza della divisione in seno al popolo ormai pervenuto alla piena unità con se stesso, si producono le megacategorie che inseriscono ogni possibile spazio di conflitto in una "definizione oggettiva del problema" che esclude rigorosamente ogni possibilità di tematizzazione politica e conflittuale del fatto. Questa forma di organizzazione dell'aisthesis, la cui struttura sarà particolarmente evidente nell'analisi del "dispositivo di razzismo" che interessa in modo particolarmente rilevante le società postdemocratiche, realizza all'interno delle singole unità significanti quella forma campo di cui abbiamo parlato come unica possibile localizzazione del nomos in uno spazio sociale omogeneo, in cui fatto e diritto sono divenuti indistinguibili, in cui al linguaggio è tolta ogni possibilità di rappresentazione conflittuale.

Già Heidegger aveva visto che sotto la piena oggettivazione del rapporto tra l'esserci e l'ente nel "si", si gioca e si occulta una possibilità radicale di conflitto, un conflitto totalizzante che sempre si ri-vela nell'equivocità dell'esser-nel-mondo linguistico:

L'esser-'l'uno con l'altro' nel si non è affatto un essere l'uno accanto all'altro, in sé concluso e indifferente ma è, anzi, un teso ed equivocante badare l'uno all'altro, un furtivo reciproco orecchiarsi. Sotto la maschera dell'uno per l'altro si recita la parte dell'uno contro l'altro. (4)

Con la realizzazione piena e la scomposizione del si nell'identità pienamente trasparente di ciascuno con se stesso, raggiunge un livello parossistico di quella che Heidegger definisce precomprensione: non c'è alcun "fatto" che possa dare luogo ad un inserimento potenzialmente conflittuale in categorie di senso, ma la creazione di iper-categorie in cui riposa la potenza di fatti-già-da-sempre-compresi, già totalmente assorbiti nella precisa articolazione dell'apparato che identifica regime dell'opinione e stato di diritto, fornendo la prestazione governamentale più appropriata al fatto che cade nella categoria in questione. La iper-categoria della precomprensione parossistica è estremamente fluida, disarticolata, ma già così a fondo compresa perché porta già in se la opportuna risposta istituzionale, la gestione del fatto come problema oggettivato in una specifica prestazione del kratos, il quale non è più kratos ma articolazione del mero possibile. L'unica risposta valida ad un problema è l'unica oggettivamente possibile. Questo stato di fatto potenziale inglobato dentro una categoria fluida ma già compresa in cui si saldano indissolubilmente opinione e diritto, esaurisce totalmente in sé ogni possibile narrazione. Il computo della "cadenza" dei fatti diviene l'unico modo dei fatti di darsi. Poiché ogni iper-categoria è un preciso dispositivo produttore di "oggettività", nel quale si saldano in una prestazione particolare tensioni specifiche del rapporto tra opinione e stato di diritto, bisogna tener presente che ogni "oggettività" così prodotta porta sempre dietro il residuo di una ambivalenza, della possibile conflittualità che ha rotto e immunizzato. Questa tensione apparirà particolarmente evidente nella prestazione del "dispositivo di razzismo" come articolazione dell'identità della comunità con sé attraverso il sentimento, contrapposta alla prestazione del diritto che può legittimarsi solo come gestione oggettiva. Ma già ora possiamo vedere che questa specifica funzione del linguaggio postdemocratico può mantenersi solo costruendo

l'utopia di un capitale illimitato di linguaggio come valore d'uso e valore di scambio. Ognuno, per significare, procede per accumulazione e scambio cumulativo di significanti la cui verità è altrove. (...) questo "consumo" discorsivo, sul quale non cala mai lo spettro della penuria, questa manipolazione scialacquatrice, sostenuta dall'immaginario della profusione, porta ad un'inflazione prodigiosa che lascia, immagine delle nostre società a crescita incontrollata, un residuo altrettanto prodigioso, un rifiuto non degradabile di significanti usati, ma mai consumati. Perché le parole che sono servite non si volatilizzano, s'accumulano come un rifiuto - inquinamento segnico (...). (5)

(1), (2), (3) - Jacques Ranciere, "Il disaccordo"
(4) - Martin Heidegger, "Essere e tempo § L'equivocità"
(5) - Jean Baudrillard, "Lo scambio simbolico e la morte"

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