22 dic 2009

Alberto Asor Rosa e Ezio Mauro

EDITORIALE | di Alberto Asor Rosa
L'ETERNA BICAMERALE
Quando qualche tempo fa scrissi e pubblicai su queste colonne un articolo intitolato Il golpe bianco (5 dicembre), non mi sarei aspettato che di lì a qualche giorno (10 dicembre) il Cavaliere sarebbe volato in soccorso delle mie tesi con le sue clamorose esternazioni al Congresso del Ppe, che sembravano fatte apposta per convalidarle e renderle definitive: ripeto, definitive.
Siamo usciti allora dal clima provvisorio di (presunta) isteria e di (patologica) rabbia: i tre elementi fondatori della strategia berlusconiana, - la denegazione del prestigio, dell'autorevolezza e della funzione di garanzia delle massime cariche dello Stato (Presidenza della Repubblica e Corte costituzionale), lo scardinamento dell'autonomia del potere giudiziario e la revisione del dettato costituzionale in vista di un proprio illimitato e sconfinato nel tempo potere personale, - venivano ormai sotto tutti gli occhi di tutti, il «golpe bianco» prendeva la sua forma finale, per giunta di fronte ad una platea europea, cosa che anch'essa finora non era mai avvenuta (il fatto che non ci siano state reazioni visibili costituisce di per sé un avallo importante alla strategia in quella sede chiaramente delineata).
Questo è avvenuto negli ultimi quindici giorni in Italia e su questo occorre tornare a riflettere, riflettere, riflettere. Insomma, il ragionamento è davvero elementare: se in Italia c'è «lo stato di eccezione» (E. Mauro, La Repubblica, 11 dicembre), la strada da battere è una; se non c'è, è un'altra. Questo è il punto: se sia in atto oppure no in Italia un processo strisciante di natura eversiva, che scende dall'alto, risponde a un disegno preciso (non sussultorio, non puramente difensivo) e si avvale per ora, con estrema durezza, di tutti gli strumenti istituzionali attualmente disponibili. E' ovvio che, in base alle risposte, se ne dipanino due possibili (e ampiamente contrapposte) risposte politiche. Le risposte politiche, e le conseguenti iniziative, invece sembrano arrivare senza che il punto nella sua essenza sia minimamente affrontato. Il massimo che si ottiene è che vengano avvistate, - e qualche volta persino denunciate, - le singole eccezioni alla regola. Ma non si vede, o non si vuole vedere, la trama che le unisce organicamente l'una all'altra, cioè non si vede, per tornare a noi, lo «stato d'eccezione». E questa rimozione (in molti casi voluta) mi sembra di per sé una terribile debolezza.
Lo strillo di Pier Ferdinando Casini dopo le ultime esternazioni, - «se vuole trasformare la repubblica in una monarchia, faremo fronte comune, e ci saranno delle sorprese», - forse dettato da emotività (ma vivaddio, in casi del genere), poteva essere l'inizio di un discorso, anche dalle ridotte ricadute pratiche sul momento, ma significativo politicamente e idealmente. Invece niente.
In questa davvero eccezionale segmentazione dell'analisi dei singoli fenomeni dalla causa vera che li determina, oltre a vasti settori dei media e dell'informazione, sarebbe vano tentare di celare che si distingue l'attuale gruppo dirigente del Pd. Tutto ciò meriterebbe un lungo ragionamento a parte, me ne rendo conto, ma ne accenno per la parte che riguarda più direttamente questo discorso. Se non c'è lo «stato di eccezione» e se di conseguenza viene scartato lo sforzo più intenso allo scopo di creare un vasto schieramento onde fronteggiarlo, - allora cosa c'è?
Lo dice, a piccoli tocchi e a prudenti dinieghi, l'attuale segretario Bersani, ma lo dice, come al solito con grande decisione e chiarezza, Massimo D'Alema, in una illuminante intervista al Corriere della Sera (17 dicembre). Agli «opposti populismi», - quello di Berlusconi e quello, ca va sans dire, di Tonino Di Pietro, - va contrapposto secondo lui il disegno serio e responsabile di un grande partito riformista, il quale, scrive D'Alema, deve avere «il coraggio di dire che le riforme istituzionali comportano una comune assunzione di responsabilità, senza temere l'accusa (va detto che, comunque, la lingua batte dove il dente duole) di voler fare inciuci». Lo scopo è quello, niente di meno!, «di rifondare il sistema politico e questo è l'unico spazio in cui il Pd può agire, tra gli opposti populismi».
Ma come si fa a pensare che si possa ragionare di riforme con la canea urlante di turibolanti e di corifei che costituisce la corte dell'Uno? Si può benissimo: «interloquendo con quelle componenti riformiste presenti anche nel centrodestra». Ad esempio? Ma è ovvio, come non pensarci: uno che anche nelle opposte, «violente strumentalizzazioni» di questi giorni, fa «considerazioni molto (apprezzare l'intensificazione) ragionevoli», e cioè, of course, Gianni Letta. E Berlusconi (di cui peraltro Gianni Letta è un fedelissimo grand commis)? E il suo disegno eversivo? Non si sa, o, a quanto sembra, non importa.
Dunque la risposta allo «stato d'eccezione», sul quale beninteso D'Alema non spende neanche una parola, né per negarlo né per denunciarlo, è l'«eterna bicamerale», perché non esiste altra parola per definire questa singolare risposta alla crisi verticale del paese.
Sarebbe più ragionevole dire che, se al populismo berlusconiano non si contrappone, e per giunta con qualche fortuna, null'altro che il populismo dipietrista (per quanto, a dir la verità, anche della nutritissima piazza antiberlusconiana non si fa cenno, ed è, occorre dirlo, un silenzio sprezzante, come si conviene ad un adoratore del «politico puro»), la responsabilità sarà se mai proprio del Pd, che non riesce a elaborare una risposta politico-sociale a tale crisi, che appaia più persuasiva di quella del dipietrismo, e al contrario s'infila nel vicolo cieco delle «riforme condivise», nel nome del supremo interesse del paese.
O non l'abbiamo già vista questa storia? Prima di entrare nel merito di una risposta alternativa e possibile, che è la cosa che c'interessa di più, e che cercheremo di fare più avanti, avanziamo alcune facili previsioni. La proposta di una nuova bicamerale con Berlusconi è dirompente: per chi la fa, naturalmente. Bersani potrebbe rapidamente giocarcisi il posto.
Il «populismo» dipietrista risulterebbe agli occhi di un numero sempre più grande di cittadini l'unica opposizione possibile. E il Pd, se non m'inganno, andrebbe a spaccarsi lungo una linea trasversale che taglia tutte le forze che lo compongono.
Siccome a me sembrerebbero tutt'e tre conseguenze non auspicabili, spero che il gruppo dirigente Pd ci ripensi.





IL COMMENTODove ci porta lo stato d'eccezionedi EZIO MAURO



Silvio Berlusconi
IERI è finita la lunga transizione italiana. Siamo entrati nello stato d'eccezione: ed è la prima volta, nella storia della nostra democrazia. Si apre una fase delicata e inedita, che chiude la seconda Repubblica su una prova di forza che non ha precedenti, e non riguarda i partiti ma direttamente le istituzioni.
Silvio Berlusconi ha scelto una sede internazionale, il Congresso a Bonn del Partito Popolare Europeo, per attaccare la Costituzione italiana (annunciando l'intenzione di cambiarla) e per denunciare due organi supremi di garanzia come la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, accusandoli di essere strumenti politici di parte, al servizio del "partito dei giudici della sinistra" che avrebbe "scatenato la caccia" contro il premier.

Il Presidente della Camera Fini ha voluto e saputo rispondere immediatamente a questo sfregio del sistema istituzionale italiano, ricordando a Berlusconi che la Costituzione fissa "forme e limiti" per l'esercizio della sovranità popolare, e lo ha invitato a correggere una falsa rappresentazione di ciò che accade nel nostro Paese. Poco dopo, lo stesso Capo dello Stato ha dovuto esprimere "profondo rammarico e preoccupazione" per il "violento attacco" del Presidente del Consiglio a fondamentali istituzioni repubblicane volute dalla Costituzione. Siamo dunque giunti al punto. L'avventurismo subalterno del concerto giornalistico italiano aveva cercato per settimane di dissimulare la vera posta in gioco, nascondendo i mezzi e gli obiettivi del Cavaliere, fingendo che la repubblica fosse di fronte ad un passaggio ordinario e non straordinario, tentando addirittura di imprigionare il partito democratico nella ragnatela di una complicità gregaria a cui Bersani non ha mai nemmeno pensato.

Ora il progetto è dichiarato. Da oggi siamo un Paese in cui il Capo del governo va all'opposizione rispetto alle supreme magistrature repubblicane, nelle quali non si riconosce, dichiarandole strumento di un complotto politico ai suoi danni, concordato con la magistratura. È una denuncia di alto tradimento dei doveri costituzionali, fatta dal Capo del governo in carica contro la Consulta e contro il Presidente della Repubblica. Qualcosa che non avevamo mai visto, e a cui non pensavamo di dover assistere, pur pronti a tutto in questo sciagurato quindicennio.

Tutto ciò accade per il sentimento da abusivo con cui il Primo Ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida. Lo domina un senso di alterità rispetto allo Stato, che pretende di comandare ma non sa rappresentare. Lo insegue il suo passato che gli presenta il conto di troppe disinvolture, di molti abusi, di qualche oscurità. Lo travolge la coscienza dell'avvitamento continuo della sua leadership politica, della maggioranza e del governo nell'ansia di un privilegio di salvaguardia da costruire comunque, con ogni mezzo e a qualsiasi costo, trasformando il potere in abuso. La politica è cancellata: al suo posto entra in campo la forza, annunciata ieri virilmente dal palco internazionale dei popolari: "Dove si trova uno forte e duro, con le palle come Silvio Berlusconi?".

La sfida è lanciata. E si sostanzia in tre parole: stato d'eccezione. Carl Schmitt diceva che "è sovrano chi decide nello stato d'eccezione", perché invece di essere garante dell'ordinamento, lo crea proprio in quel passaggio supremo realizzando il diritto, e ottenendo obbedienza. Qui stiamo: e non si può più fingere di non vederlo. Berlusconi si chiama fuori dalla Costituzione ("abbiamo una grande maggioranza, stiamo lavorando per cambiare questa situazione con la riforma costituzionale"), rende l'istituzione-governo avversaria delle istituzioni di garanzia, soprattutto crea nella materialità plateale del suo progetto un potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani, che si bilanciano tra di loro: la persona del Capo del governo, leader del popolo che lo sceglie nel voto e lo adora nei sondaggi, mentre gli trasferisce l'unzione suprema, permanente e inviolabile della sua sovranità.

Siamo dunque alla vigilia di una forzatura annunciata in cui lo stato d'eccezione deve sanzionare il privilegio di un uomo, non più uguale agli altri cittadini perché in lui si trasfigura la ragion di Stato della volontà generale, che lo scioglie dal diritto comune. Si statuisca dunque per legge che il diritto non vale per Silvio Berlusconi, che il principio costituzionale di legalità è sospeso davanti al principio mistico di legittimità, che la giustizia si arresta davanti al suo soglio. La teoria politica dà un nome alle cose: l'assolutismo è il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento di poteri concorrenti, l'autoritarismo è il potere che non specifica e non riconosce i suoi limiti, il bonapartismo è il potere che istituzionalizza il carisma, la dittatura è il comando esercitato fuori da un quadro normativo.

Avevamo avvertito da tempo che Berlusconi si preparava ad una soluzione definitiva del suo disordine politico-giudiziario-istituzionale. Come se dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolvibile, introiettala e costituzionalizzala; ne uscirai sfigurato ma pacificato, perché tutto a quel punto troverà una sua nuova, deforme coerenza. I grandi camaleonti sono invece corsi in soccorso del premier, spiegando che non è così. Hanno ignorato l'ipotesi che pende davanti ai tribunali, e cioè che il premier possa aver commesso gravi reati prima di entrare in politica, e l'eventualità che come ogni cittadino debba renderne conto alla legge. Hanno innalzato la governabilità a principio supremo della democrazia, nella forma moderna della sovranità popolare da rispettare. Hanno così dato per scontato che il diritto e la legalità dovessero sospendersi per una sola persona: e sono passati ai suggerimenti affettuosi. Un nuovo lodo esclusivo. E intanto, nell'attesa, il processo breve. E magari, o insieme, il legittimo impedimento, possibilmente tombale. Qualsiasi misura va bene, purché raggiunga l'unico scopo: il salvacondotto, concepito non nell'interesse generale a cui i costituenti guardavano parlando di guarentigie e immunità, ma nell'esclusivo interesse del singolo. L'eccezione, appunto.

Ma una democrazia liberale si fonda sul voto e sul diritto, insieme. E il potere è legittimo, nello Stato moderno, quando poggia certo sul consenso, ma anche su una legge fondamentale che ne fissa natura, contorni, potestà e limiti. Il principio di sovranità va rispettato quanto e insieme al principio di legalità. Perché dovrebbe prevalere, arrestando il diritto davanti al potere, e non in virtù di una norma generale ma nella furia di una legge ad personam, che deve correre per arrivare allo scopo prima di una sentenza? Come non vedere in questo caso l'abuso del potere esecutivo, che usa il legislativo come scudo dal giudiziario? È interesse dello Stato, della comunità politica e dei cittadini che il premier legittimo governi: ma gli stessi soggetti hanno un uguale interesse all'accertamento della verità davanti ad un tribunale altrettanto legittimo, che formula un'ipotesi di reato. Forse qualcuno pensa che il Presidente del Consiglio non abbia i mezzi e i modi e la capacità per potersi difendere e far valere le sue ragioni in giudizio? E allora perché non lasciare che la giustizia faccia il suo corso, anche nel caso dell'uomo più potente d'Italia, ricongiungendo sovranità e legalità?

L'eccezione a cui siamo di fronte ha una posta in gioco molto alta, ormai. Qualcuno domani, messo fuori gioco da Napolitano e Fini, condannerà le parole di Berlusconi, ma ridurrà lo sfregio costituzionale del premier a una questione di toni, come se fosse un problema di galateo. Invece è un problema di equilibrio costituzionale, di forma stessa del sistema. Siamo davanti a un'istituzione che sfida le altre, delegittimandole e additandole al popolo come eversive. Con un ricatto politico evidente, perché Berlusconi di fatto minaccia elezioni-referendum su un cambio costituzionale tagliato su misura non solo sulla sua biografia, ma della sua anomalia.

Per questo, com'è chiaro a chi ha a cuore la costituzione e la repubblica, bisogna dire no allo stato d'eccezione. E bisogna aver fiducia nella forza della democrazia. Che non si lascerà deformare, nemmeno nell'Italia di oggi.
© Riproduzione riservata (11 dicembre 2009)

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