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21 apr 2009

democrazia formato Guantanamo



Obama ha annunciato che entro un anno la prigione di Guantanamo sarà chiusa. Contestualmente alla pubblicazione dei documenti segreti che rivelano le verità aberranti della tortura, ha anche annunciato che gli agenti della CIA implicati non saranno in alcun modo perseguiti. La via dell'amnistia e dell'impunità sembrano ad Obama indispensabili per traghettare il suo mutamento epocale preservando la controversa nozione di unità nazionale.

Sui metodi di tortura Obama ha ribadito che gli Usa hanno una volta per tutte messo la parola fine alle pratiche «che minano la nostra autorità morale e non ci rendono allo stesso tempo più sicuri». Da qui la decisione di voltare pagina mostrando la cruda realtà: «Le nostre informazioni riservate vengono normalmente protette per ragioni di sicurezza, ma ho deciso di pubblicare questi memorandum perchè credo fortemente nella trasparenza e nella responsabilità». Una decisione comunque destinata a creare polemiche: da Amnesty International sono infatti arrivate le prime critiche alla decisione di non punire i responsabili («un salvacondotto gratis per l’impunità») mentre il Centro per diritti costituzionali Usa ha parlato della «più grande delusione» arrivata dall’Amministrazione Obama.

da: La Stampa

L'autorità morale dei "portatori di democrazia" va preservata dall'effetto perverso della stretta sicurezza.
Ma cosa significa portare la democrazia? Un cittadino europeo che conosca la storia del proprio paese e del popolo a cui appartiene dovrebbe rispondere: lavorare per un’organizzazione della vita in comune che impedisca al più forte e al più ricco di schiacciare gli altri come pulci, creare un sistema di leggi valido per tutti, alle quali siano sottoposti i cittadini comuni e i governanti, organizzare un sistema di rappresentanza politica attraverso il quale ogni cittadino possa, secondo i suoi valori, il suo credo, i suoi interessi, partecipare a definire l’interesse generale della comunità, decidere chi andrà a scrivere quelle leggi, e che non andrà a scriverle solo per il proprio tornaconto.

Democrazia significa, nella pratica, che la polizia non verrà a prenderti in casa senza motivo, che avrai un giusto processo, in cui non conta se sei arabo, rumeno o figlio di Rockfeller, se sei comunista o ebreo o musulmano, per decidere se hai rubato una mela e quanto è grave che tu l’abbia rubata. Democrazia significa: scuola gratuita e la possibilità di informarsi su ciò che i potenti decidono, cercarsi un lavoro che non ti faccia sentire uno schiavo, poter esprimere delle critiche e delle proposte su come il paese dovrebbe funzionare. Questo è un progetto ideale, una specie di paradiso, che gli uomini hanno immaginato e tentato in vari modi di realizzare nella storia, contro oppressioni e violenze, contro le illusioni diffuse dai potenti e contro le difficoltà che si incontrano ogni volta che si tenta di trasformare una idea in realtà.

Quando ho chiesto a Ruhal Ahmed, dopo tre anni di reclusione a guantanamo, cosa pensa quando sente parlare di “democrazia”, mi ha guardato con un’espressione incredula e severa, ma rassegnata; mi ha risposto: “what is democracy?” “come posso credere nella democrazia?”. In quella domanda c’è tutta la tragedia del nostro tempo. Noi cittadini europei, con i nostri diritti garantiti, le nostre libertà, siamo alleati degli Stati Uniti nella guerra contro il terrorismo globale per portare la democrazia nel mondo, ma forse abbiamo un problema. Forse abbiamo smesso di farci questa domanda. Forse, il nostro sistema politico è arrivato a un punto in cui alla domanda “cosa è la democrazia?” si possono dare solo risposte contraddittorie, mezze verità. Forse abbiamo organizzato la nostra società in un modo che ci faccia scordare di porci questa domanda.


Guantanamo è una base militare che funziona come prigione per tutti gli stranieri sospettati di attività terroristiche contro gli Stati Uniti d’America; dipende direttamente dal capo del governo statunitense, che con una legislazione d’emergenza, dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, ha disposto che tutti i soggetti pericolosi per il paese fossero sottoposti a delle restrizioni straordinarie, utilizzati per ottenere informazioni sulle attività terroristiche attraverso interrogatori violenti e umilianti, privati di ogni diritto e garanzia. I detenuti di Guantanamo, secondo l’ordine presidenziale del 2001 sulla "detenzione, trattamento e giudizio dei cittadini non americani nella guerra contro il terrorismo", possono essere reclusi senza limiti di tempo e sottoposti a interrogatori-torture, non hanno diritto ad un legale che conosca prima del processo gli elementi dell’accusa e vengono giudicati solo da tribunali militari. Il loro stato e quello di “combattenti stranieri”: non vengono riconosciuti come prigionieri appartenenti ad un esercito nemico, quindi non godono dei diritti che la convenzione di Ginevra del 1948 riconosce ai prigionieri bellici. I reati per i quali questi “combattenti stranieri” possono essere condannati, anche a morte, dal tribunale militare di Guantanamo sono stati introdotti dalla legge militare d’emergenza e riguardano tutte le azioni che, in ogni luogo e tempo, compiono i maschi armati dei popoli in guerra. Inoltre, il fatto che la base di Guantanamo sia posta fuori dal territorio Statunitense consente alle autorità militari di non applicare le leggi che in patria garantiscono il giusto processo e un equilibrio tra il potere militare del governo e il potere giudiziario della magistratura. Il segretario di stato americano ha detto, nel 2003: “non ci si deve preoccupare per le condizioni dei detenuti di Guantanamo. Bisogna pensare che essi si trovano lì solo perché sono scampati alle bombe. Sono fortunati.” I detenuti passati per Guantanamo, secondo le ultime stime, sono stati quasi un migliaio. Nel 2006 una relazione di Amnesty International, inviata anche al presidente degli Stati Uniti, descriveva la loro condizione. Eccone alcune frasi:

I prigionieri sono rinchiusi 24 ore su 24 in delle piccole celle singole (un metro e ottanta per due metri e mezzo) con pareti di rete metallica aperte all’osservazione esterna su tutti e quattro i lati, sempre illuminate dalla luce solare di giorno e da quella artificiale di notte e soggette alle temperature subtropicali (spesso oltre i 43 gradi centigradi). Dormono su pavimenti di cemento, senza materassi, e il bagno è un buco per terra. I prigionieri non hanno nome: sono solo un numero, che corrisponde alla loro cella. In una settimana, dalla gabbia si esce per soli novanta minuti. I detenuti devono vestire il “tre pezzi”, che è una cintura di cuoio, stretta in vita da robusti anelli cui vengono agganciati due metri di catena che tengono insieme caviglie e polsi. In una lettera ai membri della Commissione Forze Armate del Senato degli Stati Uniti due prigionieri, Shafiq Rasul e Asif Iqbal, che sono stati liberati nel marzo 2004 e quindi sono potuti tornare in Gran Bretagna, raccontano come si svolgono gli interrogatori a Guantánamo: «siamo stati incatenati per ore […] ai prigionieri veniva imposto di urinare mentre venivano interrogati e non era concesso loro di andare al bagno. Eravamo costretti a stare con le gambe in aria, con le mani legate tra le gambe e incatenati al suolo […]. Venivamo lasciati in questa posizione per ore prima dell’interrogatorio (che poteva durare anche 12 ore) […] Veniva alzata l’aria condizionata, così dopo pochi minuti si gelava. C’erano una lampada stroboscopica e la musica ad alto volume, che costituivano a loro volta una forma di tortura. A volte venivano portati anche dei cani per terrorizzarci. Non sempre venivamo nutriti e quando tornavamo in cella per quel giorno non ricevevamo nessun pasto […]. Soldati ci hanno detto personalmente che andavano nelle celle e davano bastonate con spranghe di metallo di cui poi non relazionavano. Noi stessi abbiamo assistito a brutali assalti ai prigionieri […] Desideriamo chiarire che questi e altri episodi e tutta la brutalità, l’umiliazione e la degradazione avevano chiaramente luogo come risultati di politiche e ordini ufficiali»

I detenuti di Guantanamo sono solo corpi, senza diritti e senza identità. Sono come gli ebrei, i rom e gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti. Non è difficile finire a Guantanamo. Ruhal Ahmed, per esempio, vent’anni, cittadino inglese di origini pakistane che nel novembre del 2001, poco prima dei bombardamenti americani, era andato a festeggiare il matrimonio di sua cugina in paese, è stato venduto come “guerrigliero” dagli alleati degli americani, l’Alleanza del Nord che si opponeva ai talebani, insieme ad altre decine di uomini indifesi, in cambio di qualche migliaio di dollari. Non ne sapeva niente di guerriglia.

Tra i detenuti di Guantanamo sono finiti centinaia di migranti, che, sospettati di appoggiare il terrorismo, di simpatizzare con le idee di Al Quaeda o di essere in procinto di attaccare in qualche modo gli Stati Uniti, sono stati colpiti dalla forza militare d’emergenza senza passare da tribunali in cui difendersi.

È quello che succede ovunque, anche in Italia: i cittadini sono spaventati, si continua a parlare di emergenza sicurezza e si limitano le libertà degli individui per permettere al potere politico armato di tenere lontano gli indesiderabili; è uno strumento che viene usato contro i migranti e contro i cittadini che potrebbero criticare il potere. Per tenerli a bada, in scacco, disposti a lasciarsi schiavizzare per il pane. Tutti i cittadini, in qualche modo, fanno la loro parte: bisogna stare al sicuro, e quindi si ha paura di ogni diverso, che potrebbe nascondere un nemico. La nostra democrazia non significa più niente: i diritti fondamentali su cui si fonda sono stati sospesi per affrontare un’emergenza che non capiamo. Anzi, forse uno dei motivi per cui si fa una guerra assurda, dolorosa e infinita, contro un nemico che non si conosce, è che dobbiamo essere in guerra contro qualcuno per sentirci buoni.

Lavorare per una vera democrazia sarebbe un altro modo per creare una specie di bene. Sarebbe più difficile, dovremmo sentirci molte volte deboli, incapaci, stupidi. Ma avremmo qualcosa in cui credere.

14 feb 2009

il mondo è cambiato?

Mario Tronti scrive un’impietosa e polemica analisi della vittoria di Obama. La scrive all’indirizzo della sinistra che si illude ma anche di quella incerta e di quella che ha tutto chiaro.

Allora, compagni. Come tutti avete potuto vedere, il mondo, a far data dal 4 novembre, è cambiato. Il cielo è sempre più blu, la terra sorride aperta finalmente all'audacia della speranza, le nostre notti non sono più cupe, rivisitati come siamo dal sogno americano. Il messia è tornato, come aveva promesso, cammina non sulle acque, ma sull'etere, narrazione di parabola in parabolica, questa volta per messaggini. Vi ricordate l'11 settembre? Nulla sarà come prima. Tutto è stato come prima. Questo è un 11 settembre rovesciato. Di nuovo, «siamo tutti americani». E non cambierà niente. Niente di quello che ci interessa cambiare.Avete capito che sto gettando acqua sul fuoco, non per spegnerlo, ma almeno per circoscriverlo. Poi, speriamo sempre che la scintilla infiammi la prateria. Non ci saranno dunque conseguenze? Altroché se ce ne saranno! La soluzione questa volta è stata trovata quasi all'altezza del problema. Quasi: perché la crisi di fase capitalistica è più grave, più tosta, dell'invenzione di immagine, della risorsa simbolica, che si è messa in campo. Ma comunque, questa conta, e come se conta! Lo vediamo in queste ore, in questi giorni. Gli Usa di ieri, frastornati, disorientati, depressi, sono «rinati», come i ridicoli cristiani delle loro sette. Il fatto macroscopico, quello su cui dobbiamo prendere a ragionare, quello dentro cui dobbiamo mettere anche il successo Obama, è la chiusura del ciclo neoliberista, il crollo della finanziarizzazione selvaggia del capitale, la rivincita dell'economia reale, che si fa di nuovo viva come crisi della produzione materiale, con tutte le paure, le incertezze, i bisogni di voltare pagina, che essa porta con sé. E' questo che ha reso possibile, perché necessaria, la vittoria della parola change. Non la spinta dal basso di una partecipazione popolare, con i suoi appassionati volontari, espressione spontanea della vitalità di una meravigliosa democrazia.Questa c'è stata, ma come un'onda provocata, raccolta e orientata verso un volto nuovo di «personalità democratica», che abbiamo già altre volte descritto come corrispettivo aggiornato della adorniana «personalità autoritaria». Attenzione. Qui l'accento batte non sugli aggettivi, democratica e autoritaria, ma sul sostantivo, personalità. C'è un problema preciso, teorico e storico: perché la democrazia, al pari del totalitarismo, ha bisogno, per funzionare, dell'idea e della pratica della personalità? Perché si fa il vuoto nelle istituzioni, e nelle organizzazioni, per riempirle poi con un volto? Problema. E un'altra cosa, meno astratta, più empirica. Da dove sono uscite le enormi risorse finanziarie di Obama, che hanno fatto apparire indigente nientemeno che la famiglia Clinton? In che percentuale sono state esse il frutto della mobilitazione dei neri, delle donne, dei giovani? E quali e quante le altre fonti?La mia idea è netta, e la esprimo in modo netto, perché se ne possa lucidamente discutere: Obama ha vinto, perché a un certo punto l'establishment ha scelto Obama. A un certo punto: all'inizio, solo pezzi di esso si erano esposti, i più avvertiti, di fronte al disastro finale di Bush, poi, con l'esplosione della crisi vera, il grosso non ha avuto più dubbi. E il personaggio è volato nei sondaggi, anch'essi non certo spontanei. In democrazia, vince chi riesce a farsi presentare come il prossimo vincitore. Abilità e forza comunicativa aiutando. Il cambio è niente altro che un cambio di leadership, nel tentativo di riacchiappare un'egemonia che scappa. E siccome si tratta di un'egemonia-mondo, ci vuole un global leader. Poteva assolvere a questa funzione il vecchio soldato MacCain? Evidentemente, no. Guardate lo spostamento dell'opinione pubblica mondiale, di destra, di sinistra e di centro, prima e dopo le elezioni americane. Impressionante. Anche qui è un'onda. Per resistere, bisogna come Ulisse farsi legare al palo della nave, visto che non possiamo non vedere e non udire.La verità è che gli americani sono oggi veramente in tutto debitori dei cinesi. Hanno infatti applicato alla lettera il motto di Deng: non importa se il gatto è bianco o nero, importante è che acchiappi il topo. Miei cari, i topi siamo destinati ad essere noi. Bisogna togliersi dalla testa che il partito democratico sia la sinistra e il partito repubblicano la destra americane. Non sono nemmeno il centrosinistra e il centrodestra, come vorrebbero i nostri ulivisti mondiali. Il bipartitismo perfetto e la perfetta alternanza di governo funzionano soltanto quando ci sono due partiti centrali di sistema. Sì, due diversi bacini di consenso, distribuiti socialmente e territorialmente, due blocchi di interessi tradizionali, molto mobili e trasversali, anche due scale di valori e di diritti, ma il tutto orientato sempre all'uno della grande nazione «eccezionalista». Impallidiscono i nostri nazionalismi europei di fronte a quello americano. Solo che quello non si chiama così. È Impero del Bene, religione democratica universalmente salvifica.Chi più che un predicatore nero può oggi raccogliere le bandiere che i maledetti neocons hanno lasciato cadere nella polvere della guerra infinita? Se Malcom X diventa Obama, è perché il calderone di fusione ha funzionato alla perfezione. Nessun pericolo. Anzi, una formidabile opportunità. L'America è un luogo dove tutto è possibile: che un nero entri alla Casa Bianca e che diventi quindi un bianco qualunque. La novità c'è. Non è questo il punto. Ma l'arte di disporci dinanzi al nuovo in modo non subalterno, non l'abbiamo forse imparata? Il nuovo non ha un valore in sé, va misurato sulla nostra condizione presente, se siamo in grado di assumerlo e governarlo e piegarlo. Per quanto detto sopra, nei confronti di un cambio di leadership nel bipartitismo americano, io non faccio una scelta strategica, ma tattica. Chi mi conviene che vinca, chi mi lascia più spazio di movimento, chi mi consegna migliore capacità di manovra? Era opportuno uscire dalla grande crisi con Roosevelt, perché così le lotte operaie potevano imporre il compromesso keynesiano. Era giusto allearsi con gli Usa per sconfiggere militarmente il nazifascismo. Si poteva essere kennediani, se avevi alle spalle la forza del Pci e la potenza dell'Urss: non c'era pericolo allora di metterti nell'onda progressista, semplicemente subendola. Anzi ti serviva per innovare nel tuo campo. Il discorso è sempre quello: l'iniziativa di cambiamento del tuo avversario, o sei in grado di utilizzarla, o altrimenti ne rimani vittima. Perché mi sento di dire che non possiamo dirci oggi obamiani? Semplicemente perché siamo deboli. Non c'è in campo nessuna forza alternativa. Questo sarebbe stato il momento di una grande iniziativa del socialismo europeo. Non possiamo dare la supplenza al profeta del nuovo vecchio mondo. Così riconsegni la pratica egemonica, magari passando dall'unilateralismo al multipolarismo, a chi la stava giustamente perdendo. Il modo corretto di porre la questione, parlando politicamente, nel senso specifico del termine, è secondo me il seguente: Obama è adesso la figura nuova che assume il nostro avversario. Va ricollocata e rideclinata una proposta alternativa di organizzazione e di lotta sulla base di questa novità. Si apre un periodo di maggiori difficoltà. Era facile essere contro Bush, sarà difficile essere contro Obama. Si chiudono spazi per le esperienze di movimento, l'unica forma di soggettività emersa negli ultimi anni, non a caso a livello global, sul terreno dei partiti, nazionali, l'intendenza europea seguirà, l'Atlantico si farà più stretto. La luna di miele finirà, ma prima durerà. Tra l'altro, il giovanotto (!) è sveglio, è pragmatico, è cinico, è pigliatutto, ha perfino un pizzico di carisma, è intelligente perché si è circondato di persone mediamente intelligenti. Una machiavelliana presa di potere, perfetta. In questo, chapeau! agli Stati Uniti d'America, gli unici in grado di far ancora tesoro del detto, mitteleuropeo: là dove c'è il massimo pericolo, lì c'è ciò che salva. Aprite il discorso della vittoria. L'incipit: giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi d'America, gay, eterosessuali, disabili e non disabili. «Siamo e sempre saremo gli Stati Uniti d'America». Che dobbiamo fare? Applaudire, alzare le braccia in segno di saluto, piangere di commozione?Confesso. Sono ormai arrivato - il tono di questo testo lo documenta - al limite massimo di sopportazione per questo modo impolitico, apolitico, antipolitico di parlare di politica. Una parentesi. Se ho ben capito come vanno le cose del mondo, e a questo punto di lunga età mi pare proprio che sì, ecco: chiunque dice «ricchi e poveri» è mio nemico. Questo è un criterio del politico, una verità teorica assoluta, un punto di orientamento pratico, che consiglio di coltivare in sé come una pietra preziosa. Chiusa parentesi. E vengo invece a un punto di problema, su cui ho qualche incertezza, perché sento che qui c'è un a partire da me, dal mio modo di esistenza, che potrebbe deviare e far sbagliare il giudizio. E chiedo anche qui un contributo di discussione, e magari una capacità avversa di dissuasione. Insomma. Chi sono queste masse? Parlo delle folle di Chicago e di tutta la lunga intensa campagna obamiana. Ma anche di quelle del Circo Massimo, se sono, anche questo è da discutere, più o meno le stesse. Le guardo con curiosità e diffidenza. A me paiono foglie mosse dal vento delle parole e delle immagini, singoli individui collettivamente incantati dal suono del linguaggio, indifferenti, per non dire ostili, alle idee, agli argomenti, alle analisi. Piazze virtuali, un popolo da second life, che non esprime qualcosa, ma vuole essere espresso da qualcuno. Si potrebbe dire che non è una cosa nuovissima. Il Novecento ha visto fenomeni analoghi. Ma, secondo me, c'è una differenza. La nazionalizzazione delle masse, come la socializzazione delle masse, si fondava su idee forti. Ci si riconosceva in una dottrina, si assumeva e si portava un'ideologia. Il culto del capo era l'appartenenza a un campo, l'assunzione di un progetto. Così la massa si faceva soggetto. E poi la razza, o la classe, erano fattori oggettivi. Qui, oggi, non c'è nulla di tutto questo. C'è solo la fascinazione per una narrazione. Obama non rappresenta i neri, rappresenta tutti. Veltroni non rappresenta i lavoratori, rappresenta i cittadini. E dunque queste piazze sono piene di un niente. È un problema serio, forse il più serio. Penso che accanto all'osservatorio sulle élites, dovremmo ragionare intorno a un osservatorio sulle masse. Come riportare dentro questo politico virtuale il principio di realtà?Da soli, soggettivamente, non ce la facciamo. Ci vuole una scossa sismica di alta intensità, di quelle che fanno saltare i pennini del sismografo. Dire, parlare, della sinistra, piccola o grande che sia, risulta, di fronte alla dimensione del problema, una chiacchiera da bar sul commissario tecnico della nazionale. Ci può aiutare solo la realtà stessa, sempre più ricca, rispetto a noi, di risorse imprevedibili, da scrutare e da utilizzare. Ma quale realtà, o quale pezzo di essa ci conviene che emerga? Qui, il discorso si fa duro, pronunciabile in parte, indicibile per intero. Io, se mai ne ho avuti, a questo punto non ho dubbi: meglio la crisi che lo sviluppo, meglio il conflitto che l'accordo, meglio la divisione aspra del mondo che la sua irenica unità. Sto parlando, realisticamente, del terreno più favorevole a che sorga una soggettività collettiva alternativa. Che non verrà da sola, senza un intervento politico dall'alto, a suggerire e a organizzare.

Stralcio dall'introduzione di Mario Tronti al volume collettivo "Passaggio Obama. L'America, l'Europa, la Sinistra. Una discussione al CRS provocata da Mario Tronti" (Ediesse, pp. 128, euro 9) in uscita a febbraio. I saggi raccolti sono a firma di Rita di Leo, Ida Dominijanni, Mattia Diletti, Luisa Valeriani, Stefano Rizzo e Roberto Ciccarelli.

20 gen 2009

GOOD MORNING AMERICA!


Oltre due milioni di persone sono attese domani, a Washington, per la cerimonia di insediamento di Barack Obama, 44esimo presidente degli Stai uniti e primo afroamericano ad insediarsi alla Casa Bianca. Un mandato difficile che cade in uno dei periodi più bui della storia americana. Una difficoltà di cui lo stesso Obama è ben consapevole: "La nostra nazione è in guerra, la nostra economia è in crisi, milioni di americani hanno perduto i loro posti di lavoro o le loro case". E’ lucido Barack ma anche fiducioso: "Nel corso della nostra storia, è stato chiesto solo ad una manciata di generazioni di affrontare sfide serie come quelle di oggi e non sarà facile. Ci vorrà più di un mese o di un anno, e probabilmente ce ne vorranno molti. Lungo la strada vi saranno battute d'arresto e false partenze, e giorni che metteranno alla prova la nostra determinazione come nazione ma sono ottimista che gli Stati Uniti riusciranno a resistere e che il sogno dei nostri padri fondatori andrà avanti”.
Insomma, “We are one” e quindi ce la faremo. E veramente l’America sembra una cosa sola in questi giorni di festeggiamenti (il cui budget, 150 milioni di euro, è stato peraltro fortemente criticato dai repubblicani). Lo hanno dimostrato le centinaia di migliaia di persone che, giunte da ogni parte degli States, si sono ritrovate ieri davanti al Memorial Lincoln per assistere ai festeggiamenti in onore di Barack. Ed è proprio a Lincoln, il presidente “che abolì la schiavitù e che salvò l’Unione” che va uno dei primi pensieri di Obama: “Senza di lui questo giorno non sarebbe stato possibile”. Ma nel parco del Memorial risuona anche un’altra voce, quella di Martin Luther King: “Qui – dice Obama – ancora si riflette il sogno del reverendo King e la gloria di un popolo che marciò e diede il sangue perché i suoi figli potessero essere giudicati non dal colore della pelle ma dal contenuto del loro carattere”.
“We are one” ribadisce Barack mentre si appella all’unità del Paese in nome del superamento di ogni differenza: tutti insieme “democratici e repubblicani, bianchi e neri, asiatici e latinos, gay e non, insieme possiamo farcela”.
“We are one”, Obama lo dice e lo ripete mentre a cantarlo sono le “stelle” che si esibiscono sul palco “in suo onore”. Da un magico Boss che apre il concerto con le note di “The rising” e lo chiude, insieme a Pete Seeger, con quelle di “This land is our land”, da Aretha Franklin agli U2, da Stevie Wonder a Beyoncé, da Tom Hanks a Denzel Washington.
Un bagno di folla per Obama che da dopodomani, però, sarà costretto ad affrontare tutte le difficoltà del suo mandato: la guerra in Iraq e Guantànamo, la sanità e la recessione, l’istruzione pubblica e l’integrazione razziale. Ce la farà e da dove dovrebbe cominciare? Per ora si “limita” ad affermare: «C'è una intera generazione che crescerà dando per scontato che il più importante ufficio al mondo è occupato da un afroamericano. Questa è una cosa radicale. Cambia il modo in cui i bambini neri guardano a se stessi. E cambia anche il modo in cui i bambini bianchi guardano ai bambini neri. Io non sottovaluterei la forza di questo». Non è poco come inizio.

da www.ilmanifesto.it