21 apr 2009

democrazia formato Guantanamo



Obama ha annunciato che entro un anno la prigione di Guantanamo sarà chiusa. Contestualmente alla pubblicazione dei documenti segreti che rivelano le verità aberranti della tortura, ha anche annunciato che gli agenti della CIA implicati non saranno in alcun modo perseguiti. La via dell'amnistia e dell'impunità sembrano ad Obama indispensabili per traghettare il suo mutamento epocale preservando la controversa nozione di unità nazionale.

Sui metodi di tortura Obama ha ribadito che gli Usa hanno una volta per tutte messo la parola fine alle pratiche «che minano la nostra autorità morale e non ci rendono allo stesso tempo più sicuri». Da qui la decisione di voltare pagina mostrando la cruda realtà: «Le nostre informazioni riservate vengono normalmente protette per ragioni di sicurezza, ma ho deciso di pubblicare questi memorandum perchè credo fortemente nella trasparenza e nella responsabilità». Una decisione comunque destinata a creare polemiche: da Amnesty International sono infatti arrivate le prime critiche alla decisione di non punire i responsabili («un salvacondotto gratis per l’impunità») mentre il Centro per diritti costituzionali Usa ha parlato della «più grande delusione» arrivata dall’Amministrazione Obama.

da: La Stampa

L'autorità morale dei "portatori di democrazia" va preservata dall'effetto perverso della stretta sicurezza.
Ma cosa significa portare la democrazia? Un cittadino europeo che conosca la storia del proprio paese e del popolo a cui appartiene dovrebbe rispondere: lavorare per un’organizzazione della vita in comune che impedisca al più forte e al più ricco di schiacciare gli altri come pulci, creare un sistema di leggi valido per tutti, alle quali siano sottoposti i cittadini comuni e i governanti, organizzare un sistema di rappresentanza politica attraverso il quale ogni cittadino possa, secondo i suoi valori, il suo credo, i suoi interessi, partecipare a definire l’interesse generale della comunità, decidere chi andrà a scrivere quelle leggi, e che non andrà a scriverle solo per il proprio tornaconto.

Democrazia significa, nella pratica, che la polizia non verrà a prenderti in casa senza motivo, che avrai un giusto processo, in cui non conta se sei arabo, rumeno o figlio di Rockfeller, se sei comunista o ebreo o musulmano, per decidere se hai rubato una mela e quanto è grave che tu l’abbia rubata. Democrazia significa: scuola gratuita e la possibilità di informarsi su ciò che i potenti decidono, cercarsi un lavoro che non ti faccia sentire uno schiavo, poter esprimere delle critiche e delle proposte su come il paese dovrebbe funzionare. Questo è un progetto ideale, una specie di paradiso, che gli uomini hanno immaginato e tentato in vari modi di realizzare nella storia, contro oppressioni e violenze, contro le illusioni diffuse dai potenti e contro le difficoltà che si incontrano ogni volta che si tenta di trasformare una idea in realtà.

Quando ho chiesto a Ruhal Ahmed, dopo tre anni di reclusione a guantanamo, cosa pensa quando sente parlare di “democrazia”, mi ha guardato con un’espressione incredula e severa, ma rassegnata; mi ha risposto: “what is democracy?” “come posso credere nella democrazia?”. In quella domanda c’è tutta la tragedia del nostro tempo. Noi cittadini europei, con i nostri diritti garantiti, le nostre libertà, siamo alleati degli Stati Uniti nella guerra contro il terrorismo globale per portare la democrazia nel mondo, ma forse abbiamo un problema. Forse abbiamo smesso di farci questa domanda. Forse, il nostro sistema politico è arrivato a un punto in cui alla domanda “cosa è la democrazia?” si possono dare solo risposte contraddittorie, mezze verità. Forse abbiamo organizzato la nostra società in un modo che ci faccia scordare di porci questa domanda.


Guantanamo è una base militare che funziona come prigione per tutti gli stranieri sospettati di attività terroristiche contro gli Stati Uniti d’America; dipende direttamente dal capo del governo statunitense, che con una legislazione d’emergenza, dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, ha disposto che tutti i soggetti pericolosi per il paese fossero sottoposti a delle restrizioni straordinarie, utilizzati per ottenere informazioni sulle attività terroristiche attraverso interrogatori violenti e umilianti, privati di ogni diritto e garanzia. I detenuti di Guantanamo, secondo l’ordine presidenziale del 2001 sulla "detenzione, trattamento e giudizio dei cittadini non americani nella guerra contro il terrorismo", possono essere reclusi senza limiti di tempo e sottoposti a interrogatori-torture, non hanno diritto ad un legale che conosca prima del processo gli elementi dell’accusa e vengono giudicati solo da tribunali militari. Il loro stato e quello di “combattenti stranieri”: non vengono riconosciuti come prigionieri appartenenti ad un esercito nemico, quindi non godono dei diritti che la convenzione di Ginevra del 1948 riconosce ai prigionieri bellici. I reati per i quali questi “combattenti stranieri” possono essere condannati, anche a morte, dal tribunale militare di Guantanamo sono stati introdotti dalla legge militare d’emergenza e riguardano tutte le azioni che, in ogni luogo e tempo, compiono i maschi armati dei popoli in guerra. Inoltre, il fatto che la base di Guantanamo sia posta fuori dal territorio Statunitense consente alle autorità militari di non applicare le leggi che in patria garantiscono il giusto processo e un equilibrio tra il potere militare del governo e il potere giudiziario della magistratura. Il segretario di stato americano ha detto, nel 2003: “non ci si deve preoccupare per le condizioni dei detenuti di Guantanamo. Bisogna pensare che essi si trovano lì solo perché sono scampati alle bombe. Sono fortunati.” I detenuti passati per Guantanamo, secondo le ultime stime, sono stati quasi un migliaio. Nel 2006 una relazione di Amnesty International, inviata anche al presidente degli Stati Uniti, descriveva la loro condizione. Eccone alcune frasi:

I prigionieri sono rinchiusi 24 ore su 24 in delle piccole celle singole (un metro e ottanta per due metri e mezzo) con pareti di rete metallica aperte all’osservazione esterna su tutti e quattro i lati, sempre illuminate dalla luce solare di giorno e da quella artificiale di notte e soggette alle temperature subtropicali (spesso oltre i 43 gradi centigradi). Dormono su pavimenti di cemento, senza materassi, e il bagno è un buco per terra. I prigionieri non hanno nome: sono solo un numero, che corrisponde alla loro cella. In una settimana, dalla gabbia si esce per soli novanta minuti. I detenuti devono vestire il “tre pezzi”, che è una cintura di cuoio, stretta in vita da robusti anelli cui vengono agganciati due metri di catena che tengono insieme caviglie e polsi. In una lettera ai membri della Commissione Forze Armate del Senato degli Stati Uniti due prigionieri, Shafiq Rasul e Asif Iqbal, che sono stati liberati nel marzo 2004 e quindi sono potuti tornare in Gran Bretagna, raccontano come si svolgono gli interrogatori a Guantánamo: «siamo stati incatenati per ore […] ai prigionieri veniva imposto di urinare mentre venivano interrogati e non era concesso loro di andare al bagno. Eravamo costretti a stare con le gambe in aria, con le mani legate tra le gambe e incatenati al suolo […]. Venivamo lasciati in questa posizione per ore prima dell’interrogatorio (che poteva durare anche 12 ore) […] Veniva alzata l’aria condizionata, così dopo pochi minuti si gelava. C’erano una lampada stroboscopica e la musica ad alto volume, che costituivano a loro volta una forma di tortura. A volte venivano portati anche dei cani per terrorizzarci. Non sempre venivamo nutriti e quando tornavamo in cella per quel giorno non ricevevamo nessun pasto […]. Soldati ci hanno detto personalmente che andavano nelle celle e davano bastonate con spranghe di metallo di cui poi non relazionavano. Noi stessi abbiamo assistito a brutali assalti ai prigionieri […] Desideriamo chiarire che questi e altri episodi e tutta la brutalità, l’umiliazione e la degradazione avevano chiaramente luogo come risultati di politiche e ordini ufficiali»

I detenuti di Guantanamo sono solo corpi, senza diritti e senza identità. Sono come gli ebrei, i rom e gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti. Non è difficile finire a Guantanamo. Ruhal Ahmed, per esempio, vent’anni, cittadino inglese di origini pakistane che nel novembre del 2001, poco prima dei bombardamenti americani, era andato a festeggiare il matrimonio di sua cugina in paese, è stato venduto come “guerrigliero” dagli alleati degli americani, l’Alleanza del Nord che si opponeva ai talebani, insieme ad altre decine di uomini indifesi, in cambio di qualche migliaio di dollari. Non ne sapeva niente di guerriglia.

Tra i detenuti di Guantanamo sono finiti centinaia di migranti, che, sospettati di appoggiare il terrorismo, di simpatizzare con le idee di Al Quaeda o di essere in procinto di attaccare in qualche modo gli Stati Uniti, sono stati colpiti dalla forza militare d’emergenza senza passare da tribunali in cui difendersi.

È quello che succede ovunque, anche in Italia: i cittadini sono spaventati, si continua a parlare di emergenza sicurezza e si limitano le libertà degli individui per permettere al potere politico armato di tenere lontano gli indesiderabili; è uno strumento che viene usato contro i migranti e contro i cittadini che potrebbero criticare il potere. Per tenerli a bada, in scacco, disposti a lasciarsi schiavizzare per il pane. Tutti i cittadini, in qualche modo, fanno la loro parte: bisogna stare al sicuro, e quindi si ha paura di ogni diverso, che potrebbe nascondere un nemico. La nostra democrazia non significa più niente: i diritti fondamentali su cui si fonda sono stati sospesi per affrontare un’emergenza che non capiamo. Anzi, forse uno dei motivi per cui si fa una guerra assurda, dolorosa e infinita, contro un nemico che non si conosce, è che dobbiamo essere in guerra contro qualcuno per sentirci buoni.

Lavorare per una vera democrazia sarebbe un altro modo per creare una specie di bene. Sarebbe più difficile, dovremmo sentirci molte volte deboli, incapaci, stupidi. Ma avremmo qualcosa in cui credere.

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