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16 set 2009

una purulenta mescolanza di sudditanza, disservizio e falsa coscienza

Il Volontariato e il nuovo Welfare (Guido Contessa)

Affrontare questo tema è non solo un sintomo della maturità di questo cruciale comparto della società ma è anche un ineludibile passaggio per la dignità e la libertà dei volontari. Poiché il tema viene proposto da una persona tanto credibile quanto interna al volontariato, credo che anche il contributo di chi, come il sottoscritto, è solo un ricercatore e un formatore possa oggi essere ascoltato. La premessa al mio discorso, perché non venga frainteso , è di profonda stima del Volontariato, come risorsa indispensabile e come diritto di libertà civile, e la consapevolezza che, nel quadro che propongo, esistono eccezioni serie e nobili.

Quello che si è verificato in questi oltre venti anni di Volontariato organizzato deve ricevere la massima gratitudine di tutti, ma non può essere esente dalla analisi critica. Critica teorica, astratta forse (di fronte alla sofferenza quotidiana), ma non sempre inutile. Il Volontariato reale, cioè non quello dei Convegni e dei leaders, solitamente molto avanzati nelle enunciazioni, ha in due decenni avuto tre precisi limiti, oltre agli indiscutibili meriti Esso infatti :

ha vicariato lo Stato e le Istituzioni
ha creato una ambigua confusione fra Volontariato e privato-sociale
ha dequalificato le professioni sociali
ha creato una sacca larghissima di precariato giovanile
Il vicariamento.
Uno Stato del Benessere, sia pure nella italica accezione di Assistenziale, dovrebbe occuparsi di fornire ai cittadini i Servizi essenziali di risposta ai bisogni primari (fisiologici e di sicurezza) e secondari (di socialità, autonomia e autorealizzazione). La risposta può essere diretta o indiretta, cioè delegata al privato sociale, profit o no, ma deve essere di Qualità. La fornitura dei Servizi essenziali non esclude la qualità dello Stato e delle Istituzioni in quanto sistemi, che ne è la necessaria precondizione. In una simile situazione il Volontariato ha diversi compiti integrativi: occuparsi di quelle aree di frontiera che non sono ancora recepite dallo Stato (20 anni fa la tossicodipendenza, oggi l’immigrazione, ecc.); fornire i servizi non ancora considerati strettamente necessari (come l’assistenza psicologica ai malati cronici o terminali, o il tempo libero degli handicappati); assumere la funzione di difensore civico dei soggetti più deboli (con varie forme di patronato); svolgere il ruolo di interlocutore e critico e stimolatore per la qualità e l’allargamento dell’intervento pubblico nel settore dei bisogni sociali.

In concreto però lo Stato in questi 20 anni ha dato elemosine invece che Servizi di qualità, non ha mai funzionato come sistema integrato, ed ha chiesto in cambio solo segregazione e pace sociale. La prova di questa asserzione, che può sembrare pessimistica, si trova nelle comunità terapeutiche, negli Assessorati comunali, nei programmi socio-culturali che operano in modo isolato, poco qualificato, per nulla integrato anzi competitivo, e con una pressante richiesta di anestesia culturale. Di fronte a questa realtà il Volontariato, certo in buona fede e sotto la spinta di un disagio che lo Stato non affrontava, ha accettato di continuare ad occuparsi di settori tradizionali (oggi lo sono i Servizi per tossicodipendenti, per anziani, per handicappati). E questa accettazione non è stata accompagnata da una progressiva istituzionalizzazione dei Servizi, con paghe sindacali, qualifiche professionali accertate, sistemi di controllo pubblico. Al contrario, il Volontariato ha accettato di farsi carico di settori cruciali dell’intervento pubblico, ma in condizioni di marginalità: rimborsi fuori dal mercato del lavoro, professionalizzazione debole, privatizzazione dei processi interni.

E’ eclatante la differenza con cui lo Stato cerca di rispondere ai bisogni sanitari ed ai bisogni socio-assistenziali.
Un malato che va in ospedale, sia pure con molti limiti e difetti, trova un infermiere diplomato ed un medico laureato, pagati secondo tariffe sindacali, e sottoposti al giudizio degli organi di controllo pubblico, degli organi amministrativi interni, degli Ordini professionali, della comunità territoriale. Un tossicodipendente che va in comunità (ma anche un handicappato o un anziano che entrano in un servizio del privato-sociale o volontariato) trova magari amore e buona volontà, ma incontra operatori raramente professionalizzati, spesso mal pagati, e sempre senza alcun controllo se non autoreferenziale. Lo Stato paga poco e male il Volontariato, ma non gli chiede null’altro che segregazione del disagio e pace sociale, e ottiene inoltre di scaricarsi la coscienza continuando a farsi chiamare Welfare. Il Volontariato viene umiliato, ma ottiene una nicchia politica e culturale di potere, sia pure a isole in competizione fra loro e finora utilizzato a scopi particolari (ideologici, personalistici, a volte partitici).

In questa situazione il Volontariato ha anche abdicato, il che è il male peggiore, alle sue due nobili funzioni di difensore civico e di interlocutore critico e stimolante verso le Istituzioni. E’ noto a tutti che, salvo le solite lodevoli eccezioni, il Volontariato ha accolto nel silenzio, quando non in una complicità attiva, le politiche sociali di tutti i governi nazionali e locali, di ogni colore, degli ultimi vent’anni. Molte politiche sociali del Governo o delle Amministrazioni locali sono state demenziali, scorrete o dannose, ma nessuna voce si è mai alzata a criticare. Tangenti, voti di scambio, scalate familistiche sono la regola nel Sociale ma nessun Ente del Volontariato o del privato-sociale ne ha mai fatto oggetto di denuncia. Il motivo di questa collusione è semplice: la politica ha "comprato" il consenso con danaro (peraltro poco danaro), cooptazione in Comitati vari, assenze di controlli.

2. La confusione.


Progressivamente si è creata nel Paese, con la complicità del Volontariato stesso e delle Istituzioni, una grande confusione fra Volontariato e privato-sociale. Il primo è frutto di azioni gratuite, svincolato da questioni economiche, ispirato al principio di libertà e di cittadinanza. Il secondo è una impresa privata, non profittevole, che opera nel settore sociale secondo i principi economici (non guadagna, ma deve retribuire il lavoro). Il Volontariato vero è l’associazionismo applicato al disagio (famiglie di tossicodipendenti, gruppi di auto-aiuto fra alcolisti, associazioni di ex-pazienti psichiatrici, ecc.). Il privato sociale non profit è assimilabile (in cosa è diverso?) all’impresa cooperativa classica, anch’essa non profit. In questa confusione, il Volontariato perde libertà e dignità; il privato-sociale perde lo statuto e l’autonomia di impresa. Lo Stato è l’unico a guadagnare, perché paga poco e male tutti, ma ne ottiene Servizi e consenso. Perché, per esempio, un appalto per una strada da affidare ad una cooperativa edilizia prevede un costo sindacale per i manovali, mentre un appalto per un Servizio Domiciliare di una cooperativa sociale prevede per gli operatori solo una "mancia" ?

3. La dequalificazione delle professioni.

L’asservimento allo Stato unito alla confusione fra Volontariato e impresa sociale hanno causato diversi problemi, non ultimo quello di una progressiva dequalificazione di tutte le professioni sociali. Il ricorso a ex-pazienti, a obiettori di coscienza e tirocinanti,in quanto tali (cioè senza un’apposita preparazione), nel ruolo di operatori; il riconoscimento a religiosi, non solo del ruolo classico di assistenti spirituali, ma di direttori e managers; l’uso, nel ruolo di formatori e supervisori, di operatori selezionati in base alla vicinanza ideologica prima che alla accertata competenza: tutto ciò ha rallentato o fermato un processo di qualificazione ed emancipazione delle professioni sociali,iniziato negli anni Settanta e potenzialmente capace di rendere il settore sociale non residuale o merginale. Per esempio, in Lombardia si può diventare Educatore di Comunità facendo l’Università (4-5 anni), oppure una Scuola professionale (3.000 ore), oppure facendo esperienza in una Comunità e poi frequentando un Corso a sanatoria di 1.500 ore: cosa ha a che fare questo con la Qualità? Senza contare poi le centinaia di Servizi nei quali uno passa in 5/6 anni da utente o obiettore a tirocinante a operatore precario e poi stabile, senza avere fatto un solo giorno di formazione.


Il precariato giovanile.

In questo turbinìo di Volontariato, Associazionismo, privato-sociale, Corsi FSE per l’autoimprenditorialità sociale e così via, nessuno sembra preoccuparsi del destino di legioni di giovani che vivono per anni in precariato. Senza stabilità né sicurezza, senza possibilità di carriera né verticale né orizzontale, senza un reddito che possa autonomizzarli, a costante contatto con disagi anche gravissimi, migliaia di giovani ogni giorno rischiano la salute mentale, ed nel prossimo futuro non potranno avere una famiglia, farsi una casa, cambiare lavoro o settore. Gli operatori professionali o volontari sono l’unica ricchezza del Sociale, l’unica prospettiva per i Soggetti a disagio, ma le politiche del lavoro sociale sono quanto di più retrivo, irresponsabile e pericoloso si possa immaginare. Nel nome della buona fede e della missione, gli operatori sociali vengono trattati in modi tanto arcaici e repressivi in un modo che nessuna impresa privata potrebbe permettersi.

Per concludere segnaliamo che i punti 2-3-4 sono il risultato del punto 1: una collusione politica fra lo Stato, che preferisce investire in rottamazione anziché nel Welfare, e Organizzazioni del Volontariato che hanno abdicato alle loro nobili funzioni di aggregazioni gratuite, critiche e di frontiera. Invece di anticipare la Qualità del futuro, il Volontariato ha inseguito la Quantità del passato. Invece di essere l’espressione di una libera cittadinanza è divenuto una forma di sudditanza funzionale. Alla fine di questa corsa, sulla soglia dell’Immaterialesimo, c’è da sperare che il Volontariato, insieme a tutte le altre aggregazioni sociali e immateriali, ritrovi le sue ragioni di fondo e si disponga ad assumere il ruolo di guida etica e civile che gli spetta



fonte: http://www.psicopolis.com/synaptica/notiziari/egeocon/fict.htm

13 mag 2009

i RESPINGIMENTI ai tempi di Prodi


28 marzo 1997: il giorno di venerdì santo, la nave albanese 'Kater I Rades' affonda dopo una collisione con la corvetta della Marina militare italiana 'Sibilla'. Sono tratte in salvo 34 persone e recuperati 4 cadaveri. Altri 52 corpi saranno estratti dopo il recupero del relitto nel mese di ottobre.


dall'articolo La Kater I Rades (Battello in rada)- Tentativi di insabbiamento - 2003



Erano salpati alle tre del pomeriggio del 28 marzo dal porto di Valona, intere famiglie con molte donne e molti bambini, a bordo della Kater I Rades, una motovedetta militare in disuso, costruita trentacinque anni prima per un equipaggio di nove marinai.


Proprio quella mattina, alla televisione italiana, qualcuno di loro ha sentito un rappresentante dell’Acnur dichiarare incostituzionale il blocco navale deciso dall’Italia e nella fretta di partire l’ha interpretato come un via libera. Da una settimana l’Italia ha infatti schierato la flotta nel Canale d’Otranto per fermare le carrette albanesi in fuga dal loro paese precipitato nella guerra civile. Il crack delle piramidi finanziarie ha bruciato due miliardi di dollari in pochi mesi lasciando sul lastrico migliaia di albanesi che avevano venduto la terra e il bestiame con il miraggio di interessi del 300%. La popolazione è in rivolta, comitati di insorti, vere e proprie bande armate, hanno assunto il controllo delle città, ovunque si è diffuso un clima di terrore.


La Kater I Rades ( Battello in rada) è carica fino all’orlo, i passeggeri sono oltre centoquaranta al momento dell'imbarco, invidiati dalla folla rimasta sul molo a imprecare all'occasione perduta. A bordo, sull’onda dell’euforia, qualcuno sparge la voce che basta avere una bandiera bianca perché le navi italiane ti scortino fino al porto di Brindisi, e di bandiere bianche ne vengono issate due, una a poppa e una a prua. La motovedetta ha da poco doppiato il capo dell'isola Karaburun, quando si vede avvicinare dalla Fregata italiana Zeffiro, appostata dietro all'isola di Saseno. La nave gira attorno alla Kater e dagli altoparlanti intima ai passeggeri di tornare indietro, benché stiano navigando ancora in acque albanesi. La Kater non si ferma, avanza verso le coste pugliesi mentre la nave Zeffiro continua a girarle intorno, come uno squalo, fino a quando, intorno alle cinque e mezza, si ferma, al traverso, a poppa della Kater, lasciando il passo a un’altra nave, più piccola e più adatta a manovre di intercettazione. E’ la Sibilla e si avvicina a giri sempre più stretti, tanto che i passeggeri della Kater vedono distintamente degli uomini in tuta mimetica sul ponte. Uno di essi punta contro di loro una mitragliatrice leggera, mentre un marinaio li fotografa. In aria, intanto, volteggia a bassa quota su di loro un elicottero della Marina, un pilota li filma dall’alto, poi un faro li punta e subito dopo le luci della nave italiana, altissima e vicina, illuminano a giorno il ponte della Kater.


Alle sei e quarantacinque l'elicottero se ne va, i passeggeri vedono lontano, nel buio, le luci della Zeffiro. La Sibilla sembra invece scomparsa, quando all’improvviso, la vedono avanzare verso di loro, a tutta velocità e a luci spente. Qualcuno pensa che sia il rimorchiatore, grida e salta di gioia. L’illusione dura poco, una voce nel megafono ripete le parole già sentite dalla nave Zefiro. “Tornate indietro”.


“Sterza, ci vengono addosso” grida a un tratto qualcuno sul ponte, mentre a dritta, sul fianco, vicino alla poppa, la prua della nave Sibilla colpisce la Kater facendola ruotare su se stessa. All’urto segue uno scossone, molti corpi sbalzano fuori, altri scivolano in acqua come bambole di pezza. La nave sale, sempre più in alto, poi precipita con un boato tremendo e dal cielo piovono sbarre di ferro, lamiere, vetri, pezzi di legno. Krenan Xhavara, uno dei trentaquattro superstiti, ricorda l’interminabile volo nel buio, poi il violento impatto con l’acqua gelida, la sensazione di muovere le gambe senza riuscire a risalire, il sapore acido dell’acqua intrisa di nafta.

La Kater I Rades viene colpita di nuovo più avanti, e questa volta si capovolge, altri passeggeri cadono in acqua, la Sibilla fa marcia indietro e si allontana, alcuni che non sanno nuotare salgono sulla nave rovesciata, in coperta donne e bambini stanno morendo affogati come topi in trappola.


Ore 19.03. La Kater affonda, un gruppo di validi nuotatori, tutti di Valona, nuota al buio, per venti minuti, verso la Sibilla. Dalla nave viene calata una scialuppa che raccoglie quattro cadaveri e qualche superstite, gli altri vengono fatti salire a bordo di una seconda scialuppa che pende dalla murata della Sibilla, non è stata calata in mare in loro soccorso. Una volta raggiunto il porto di Brindisi, carabinieri e polizia caricano i sopravvissuti a forza su autobus, lontani dai giornalisti in attesa di parlare con loro sul molo. “’A posto, a posto’, dicevano,” racconta ancora Krenar Xhavara.“’Potete andare’. Eravamo diventati testimoni pericolosi dei quali bisognava disfarsi, hanno offerto a tutti di andare in altre città italiane, lontani da qui e solo quattordici di noi sono rimasti a Brindisi.”










(...)










Sul molo di Brindisi nessuno rese omaggio alle vittime: non il presidente del consiglio Prodi, non il ministro della difesa Andreatta, non Giorgio Napolitano, non Massimo D’Alema, eletto nella vicina Gallipoli.






L’unico ad arrivare, in elicottero dalla Sardegna, e a versare celebri lacrime, fu Silvio Berlusconi. Decisionale come sempre, in un colloquio di venti minuti a porte chiuse in faccia ai giornalisti, propose ai superstiti di ospitarli tutti a casa sua. “Nessuno di noi accettò,” ricorda Krenan Xhavara, loro portavoce.” ‘Metti i soldi per ritrovare i cadaveri,’ gli abbiamo detto,” che era l’unica cosa che ci interessava in quel momento.. ‘È troppo profondo’ ha risposto lui.” Sembra però che, incaponitosi, Silvio, sia riuscito a portarsi via da un gruppo di profughi precedenti una famiglia che ha finto di sistemare in una casa della Regione a Canneto Pavese per poi abbandonarla a se stessa. Un vizio se è vero, come sembra, che anche uno dei due piloti albanesi disertori, atterrati una ventina di giorni prima, il 6 marzo, con il loro Mig nell’aereoporto militare di Galatina, sia finito a guidare l’elicottero di Berlusconi!