7 feb 2010

ingiustizia sociale

COMMENTO | di Marco Revelli
INGIUSTIZIA SOCIALE
Povertà in tuta blu
«Rancore».
Loris Campetti, sulla prima pagina del manifesto del 29 gennaio, ha evocato la parola chiave per capire molte cose dell'Italia di oggi. Anzi, sotto il significativo titolo «La politica non sale sui tetti», ha usato un'espressione ancor più impronunciabile: «rancore operaio». Lo so che la cosa non piacerà quasi a nessuno, né alla destra né alla sinistra, a cominciare da tanti operaisti in stand by. Ma ci apre la porta alla comprensione di molti aspetti della nostra contemporaneità opaca, altrimenti indecifrabili. Dell'imbarbarimento civile del nord, tanto per cominciare, del nordest con i suoi sindaci xenofobi, ma anche del nordovest, l'antico triangolo industriale, ieri tradizionale area d'insediamento sociale della sinistra «lavorista» oggi territorio di conquista della Lega. Del degrado camorristico-mafioso di gran parte del sud, e del disfacimento morale assolutamente bipartisan di quasi tutta la sua classe dirigente. Della stessa evaporazione rapida della sinistra nazionale, fino al punto dell'afasia e dell'atrofia politica attuale. E dell'apparentemente inspiegabile assenza di conflitti sociali, collettivi, pur in una situazione in cui la crisi morde sul vivo.
Il rancore è un sentimento «sociale». È una passione «da poveri». Da chi è messo all'angolo. Alimenta, appunto, le «guerre tra poveri»: i conflitti orizzontali sul fondo della piramide sociale. E gli operai italiani sono, oggi, poveri. Anzi - cosa forse ancor peggiore - sono degli «impoveriti». Basta dare un'occhiata alle statistiche, che non piacciono al governo, ma ne spiegano con la loro crudezza la fortuna elettorale, per comprenderlo. La più recente rilevazione disponibile - il Rapporto della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale - ci dice che l'incidenza della povertà relativa tra le famiglie operaie aveva raggiunto, nel 2008 (quando dunque la crisi era appena all'inizio) il livello record del 14,5%, che al sud sale addirittura al 20,7%. Il che significa che qui una famiglia su cinque, il cui capofamiglia sia operaio, è costretta a vivere con una spesa mensile media inferiore di almeno la metà rispetto a quella nazionale.
Se poi dalla «povertà relativa» si passa all'indicatore di «povertà assoluta» - il quale misura il numero di coloro che non possono permettersi neppure una quantità minima di beni e servizi giudicati indispensabili per una vita dignitosa: cibo, vestiario, medicine, trasporti -, le cose vanno persino peggio. Dall'analisi «per gruppi» condotta dall'Istat sul milione e duecentomila famiglie italiane censite come «assolutamente povere», al fine di individuarne la composizione, risulta che quasi la metà di esse è costituita da lavoratori - in prevalenza dipendenti, ma non solo - o comunque da famiglie in cui la «persona di riferimento» svolge un lavoro. Si tratta, per un buon numero (170.000 famiglie, pari al 15,1% del totale) di «coppie monoreddito operaie con figli minori residenti nel Mezzogiorno» e per un'altra elevata percentuale (più dell'11%, oltre 124.000 famiglie) di «single e monogenitori operai del centronord»! Ma vi compaiono anche 110.000 famiglie composte da «coppie monoreddito di lavoratori in proprio con figli minori» (il 9,8%) e quasi altrettante (93.000, l'8,3% del totale) con capofamiglia impiegato o persino piccolo imprenditore, con un elevato numero di figli minori a carico e residenza al sud. A cui va aggiunta la massa, certamente più consistente, delle povertà occulte: di chi non è censibile «ufficialmente» come povero, in base all'entità formale del reddito o del consumo, ma di fatto lo è perché appesantito dalle rate del mutuo o del credito al consumo, da una separazione, un divorzio, una terapia relativamente costosa. O semplicemente da uno stile di vita diventato economicamente incompatibile col proprio bilancio ma socialmente irrinunciabile, pena la perdita delle relazioni primarie.
Sono, tutte, figure sociali che fino a pochi anni fa si consideravano «garantite». Che venivano viste socialmente - e si vedevano, soggettivamente - al di sopra e al di fuori del rischio-povertà. Per le quali l'orizzonte sociale era stato, a lungo, quello della crescita, di reddito e di status. E che ora si scoprono, quasi d'improvviso, su un piano inclinato. Misurano sulla propria possibilità di accesso a beni e servizi essenziali, una «caduta» che stentano ad ammettere. E che si sforzano di mascherare. Ma che viene per molti versi da lontano. E che ha a che fare - anche se è difficile, per chi la subisce, decifrarla così - con la pesante, silenziosa ma nella sostanza destabilizzante, sconfitta politica e sociale che il lavoro ha subito nell'ultimo scorcio del secolo scorso. Non solo in Italia, certo. Ma in Italia in forma particolarmente severa.
Basta dare un'occhiata alla dinamica salariale, per avere immediatamente la misura dello spostamento di potere sociale verificatosi nel periodo. L'Ocse ci colloca oggi al 23° posto nella classifica annuale delle retribuzioni nei suoi trenta paesi aderenti, davanti soltanto a Repubblica Ceca, Ungheria, Messico, Nuova Zelanda, Polonia, Portogallo, Slovacchia e Turchia. I salari lordi italiani sono in media sotto del 16% rispetto all'area Ocse e del 32% rispetto all'area Euro. Quelli netti, a causa dell'elevato peso degli oneri fiscali, ancor peggio: secondo l'Eurispes «il lavoratore italiano percepisce un compenso salariale che è inferiore del 44% rispetto al dipendente inglese, del 32% a quello irlandese, il 28% in meno di un tedesco». Sempre secondo questa fonte percepirebbe addirittura, in busta paga, il 19% in meno di un greco, e il 14% di uno spagnolo. Certo è che se si tiene conto che la testa della classifica, per salario netto, è occupata dalla Corea con 39.931 dollari annui, seguita dal Regno Unito con 38.147 e dalla Svizzera con 36.000, il lavoratore italiano con i suoi 21.374 dollari (circa 15.300 euro) appare davvero un paria.
Non era così fino agli anni Novanta, quando la remunerazione del lavoro in Italia stava 5 o 6 punti sopra la media europea. Dietro ai numeri, dunque, e al loro declino verso il basso, si nasconde un contemporaneo spostamento laterale, dal centro alla periferia, dal protagonismo al silenzio, degli uomini che dietro a quei numeri stanno. Di quel mondo del lavoro di cui si era celebrata la «centralità» nella fase matura del Novecento, e di cui è andato in scena l'oscuramento nel passaggio di secolo. Sono loro che hanno perso. Uno studio della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) calcola in numerosi punti percentuali di Pil la quota di ricchezza sociale passata dal monte salari ai profitti delle imprese tra l'inizio degli anni '80 e il 2005 nei paesi sviluppati. Per l'Italia si tratta di ben 8 punti: una cifra enorme, pari all'incirca a 120 miliardi di euro, 7.000 euro per ognuno dei 17 milioni di lavoratori dipendenti. La misura di un processo silenzioso ma brutale di emarginazione.
Stupisce che ora chi fino a meno di una generazione fa era considerato e si considerava al centro dell'universo sociale e ora non viene neppure più «visto» (a meno che non esponga il proprio corpo e la propria vita su un tetto o una gru), né «nominato» da quella stessa sinistra che sulla retorica operaia aveva costruito la propria fortuna politica, nutra rancore? Che provi anche un suo particolare gusto nell'abbandono degli antichi compagni? Un'ostentazione di wildness. Un perverso uso del politicamente scorretto, quando il mito dell'«assalto a cielo» cade nel fango, e rimane ormai solo il trash del rito celtico padano, e l'urlo gutturale della ronda leghista, a marcare un brandello di soggettività? O il rassegnato abbandono al patronnage di un padrino di camorra, in una cintura flegrea? O, infine, il sogno perverso dell'uscita verticale attraverso il cubo di un night e un ripostiglio del Grande fratello?

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