8 apr 2009

Il demone sotto la pelle - immunità e tecnica nel cinema di Cronenberg


Il cinema di Cronenberg gioca sulle ambiguità, sui compromessi. Lontano da propositi moralistici, ma ossessionato dal senso, ciò che dice di più importante emerge dalle contraddizioni che si annidano nel passaggio da uno all’altro dei molteplici piani di lettura cui il film si presta.


Un esempio, che prendiamo a fonte della nostra riflessione. Ne “il demone sotto la pelle” ("Shivers", 1979), le atmosfere tipiche dell’horror epidemico, già sèma cinematografico ascrivibile all’emergere della società di massa e del suo rimosso (si pensi all’uscita poco precedente del secondo capolavoro di Gorge A. Romero, "Zombi") trovano nella figura del dottor Hobbes un lampante punto di congiunzione con un piano di lettura pienamente attinente alla filosofia politica. In questo palazzone confortevole, che ospita una comunità borghese in cerca di piccolo eden periferico protetto da guardiano e presidi teconologici, le ricerche del mad doctor di turno (il dotto Hobes, appunto) partoriscono tali fallici baccelli, aggressivi ma non letali; l’effetto della loro infezione (che si propaga con tutti i crismi stilistici della non-morte cannibalesca, pur senza masticamento) è la totale rottura dei freni inibitori, la piena liberazione degli impulsi sessuali. Il succitato guardiano si tromba una bambina in ascensore, la quale ( gli “infetti”, al di fuori delle saturnali cui dà luogo ogni iniziazione, mantengono il pieno possesso delle competenze sociali, linguistiche, funzionali) ha poi a commentare che la cosa non le procura affatto ribrezzo, anzi.


Che sia proprio il dottor Hobbes, in altro contesto propugnatore di un patto sociale che lascia fuori di sé, sottomettendosi ad esso, l’arbitrio del potere, cui delega la soggettività di lupus in cambio di sicurezza e soggettività di diritto privato, ci dice molto di quel gioco di contraddizioni entro il quale il cinema di Cronenberg offre spunti sulla questione dell’identità. Nel film, Hobbes (che paga con la vita la propria creazione, in piena continuità con il filone Mary Shelley) produce scientificamente un batterio, un oggetto organico e “vitale”, attraverso cui l’uomo trascende i limiti socialmente imposti alla sua energia pulsionale indifferenziata. Trascende, non devasta, poiché non ritorna ad una condizione-bestia, semmai compie un malfermo passo sulla corda tesa verso l’oltreuomo. Ciò che libera l'uomo è ciò da cui l'uomo rifugge; la violenza che alberga platealmente nella massa, dà luogo ad orge sfrenate come a baci appassionati degni della migliore hollywood.


Attraverso la scienza, la liberazione degli impulsi avviene dentro la funzionalità del sociale. Colui che per buona parte del film si tenta di considerare l'eroe, peraltro senza mai molta convinzione da parte dello spettatore, finisce alla fine (nelle grinfie terrifiche di un paio di pezzi di figa nella piscina del plesso residenziale) per risultare ridicolo, farsesco. La scena finale, poi, della quale Martin Scorsese ha narrato in un'intervista il forte turbamento, non lascia scampo: la madiazione tecnico-scientifica dell'impulso libidico è già avvenuta, l'epidemia fallica ha già contagiato, la manipolazione dell'organico ha già raggiunto la gestione dell'identità. La definizione centralizzata e standandardizzata della morale (attraverso l'assenza stessa dei tabù primi su cui ogni sistema di proibizioni si manifesta, quelli sessuali; attraverso il "disposiivo di liberazione sessuale" delle società dei consumi), ormai già realizzata attraverso la tecnica, legittimata dalla scienza, si spande nella strade dela città; ancora un passaggio di livello: lo spettatore prende coscienza di essere situato nel day after rispetto ai fatti narrati, la tragedia moderna realizza la sua catastrofe attraverso un'identificazione totale e senza scampo, anzi dalla quale tutto il corso della poiesis aveva tenuto lo spettatore il più lontano possibile. alla fine tu scopri che il contagio è già avvenuto; ancora peggio: tu scopri, stringendoti lo stomaco, che non sei dalla parte dei buoni.


Dal punto di vista biopolitico, diventa interessante l'ambiguità richiamata a proposito del dottor Hobbes. Il teorico del Leviatano (quello "vero") definisce la società umana come una forma necessario di dominio sugli impulsi acquisitivi e antisociali. L'uomo è lupo per l'altro uomo, allo stato di natura. Quest'ultimo va pensato non come momento storico, precedente alla stipulazione del contratto, ma come possibilità sempre presente nella storia, possibilità dedotta per assurdo, che rivela la sua minaccia distruttiva ogni qualvolta si sgretola la struttura di potere cui è delegato l'ordine sociale. La paura diffusa dello status naturae, che tiene avvinto l'uomo al'instabilità totale, è la diretta emenazione della pari uccidibilità, la condizione di uguaglianza che caratterizza l'uomo "prima" che egli ceda la propria soggettività al leviatano, unico detentore del monopolio legittimo della violenza.
Hobbes delinea quindi l'ordine sociale come il frutto della repressione degli impulsi attraverso il contratto informato dal calcolo razionale: ciascuno limita la propria libertà, la paura che allo stato di natura è diffusa in tutti i punti della comunità ora è concentrata nel vaso di Pandora centrale della comunità, il sovrano che resta al di fuori del patto, colui dal quale la legge e l'ordine promanano, attraverso il monopolio della forza.
Il soggetto che ne deriva è quello atomistico e razionale su cui si impianterà la teoria liberale dello stato, l'immunità definisce i limiti dell'attività economica individuale, la repressione primaria è attuata, l'uomo è al sicuro.


In Cronenberg tornano i temi della sicurezza, della fondazione artificiosa dela comunità perfetta, del potere e del controllo, integrati nella riflessione sulla tecnica. Il teorico dell'unità politica artificiale diviene qui un funzionario delle moderne scienze biologiche; i batteri che la sua ricerca produce sono il prodotto tecnico di una scienza moderna ormai in grado di metabolizzare la liberazione degli impulsi sessuali all'interno della piena funzionalità del sistema sociale. La liberazione degli impulsi non divelle l'ordine sociale, ma lo conferma. Vengono in mente riflessioni pasoliniane sulla falsa tolleranza del nuovo fascismo della società dei consumi, le riflessioni di Foucault sul dispositivo di sessualità nella fase della iberazione del desiderio. La tecnologia penetra nell'organico, l'infezione si diffonde: la liberazione degli impulsi libidici non è il frutto di un'autocostruzione del sè, ma è il sintomo di un contagio. (e che cosa è il contagio nella modernità? la moda, i consumi, la necessità di imitarsi per definirsi e differenziarsi, la produzione in serie, l'informazione, il "tempo libero" - da che, poi?).


Il prodotto tecnico-organico penetra dentro l'uomo (fallicamente, s'intende), la violenza del contagio è rappresentata dalla forza soverchiante della massa aizzata; la libido, l'es, l'emotività sono pienamente oggettivati dalla scienza e dalla tecnica. La gestione degli impulsi sessuali nel Brave New World della borghesia urbana si diffonde in tutto il tessuto sociale.


Più approfonditi e complessi, gli stessi temi ritornano in "Existenz"(2001)

1 commento:

  1. bello Luca. Molto, molto interessante.

    Gran Bel blog, vi aggiungo subito tra i miei link!;)

    PS:
    Valentina sono Filippo! :)

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